Nel cuore del quartiere universitario di Rabat centinaia di aspiranti imam marocchini – ma anche di Mali, Gabon, Gambia, Senegal, Costa d’Avorio, Nigeria, Ciad e altri Paesi tra cui la Francia – studiano dal 2015 tra le ceramiche e le fontane dell’Istituto di formazione per imam. È uno dei tasselli fondamentali della ricetta del Marocco per prevenire la radicalizzazione, per immunizzare l’islam dalle derive del terrorismo. “L’Istituto di formazione degli imam mira a unificare il discorso religioso. La nostra speranza è che quando gli studenti tornano nei loro Paesi correggano i concetti erronei sull’islam come la jihad e il salafismo da cui deriva il pensiero terrorista”, spiega Abdesselam Lazaar, direttore dell’istituto Mohammed VI. La scuola è stata voluta da re Mohammed VI, di cui questo mese ricorrono i 20 anni sul trono, ed è a lui che è intitolata. Fra i banchi dell’istituto, dove papa Francesco è stato ricevuto a marzo del 2019, ci sono sia allievi che allieve: le donne non possono diventare imam ma solo ‘morchidat’, cioè predicatrici. L’unica differenza rispetto agli imam è che non possono guidare la preghiera, spiega Lazaar. Non si studiano solo l’arabo e il Corano, che tutti devono conoscere a memoria, ma le sei ore di lezione al giorno prevedono diritto, informatica, nonché discipline pratiche come cucito o gestione di impianti elettrici: l’idea è che quando gli studenti stranieri tornano in Mali o in altri Paesi africani, in cui essere imam non garantisce loro un reddito sufficiente, possano conoscere un mestiere che permetta loro di guadagnarsi da vivere.
Una scuola per imam del mondo: la ricetta del Marocco contro la radicalizzazione
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