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Birmania, Amnesty chiede processo per crimini contro umanità su rohingya

Foto AP-LaPresse - Tutti i diritti riservati

Prove “ampie e credibili” sul coinvolgimento del comandante in capo delle forze armate di Myanmar, il generale Min Aung Hlaing, e di altri 12 militari in crimini contro l’umanità commessi durante la pulizia etnica della popolazione rohingya nel nord dello Stato di Rakhine. È la denuncia di Amnesty International nel rapporto ‘Distruggeremo tutto: le responsabilità delle forze armate nei crimini contro l’umanità commessi in Myanmar, nello stato di Rakhine’, che chiede che la situazione sia deferita al Tribunale penale internazionale per lo svolgimento di indagini e l’avvio di un procedimento giudiziario.

“Le violenze – tra cui omicidi, stupri, torture, incendi e affamamenti – commesse dalle forze armate di Myanmar nei villaggi del nord dello Stato di Rakhine non sono state il frutto di soldati o unità allo sbando ma, stando alla montagna di prove raccolte, hanno fatto parte di un attacco davvero orchestrato e sistematico contro la popolazione rohingya”, sottolinea Matthew Wells, alto consulente di Amnesty International sulle crisi, “coloro che hanno le mani sporche di sangue, fino al vertice della catena di comando rappresentato dal generale Min Aung Hlaing, devono essere chiamati a rispondere del loro ruolo nella supervisione o nel compimento di crimini contro l’umanità e di altre gravi violazioni dei diritti umani previste dal diritto internazionale”.

Nel rapporto Amnesty International fa anche i nomi di nove militari sottoposti al comandante Min Aung Hlaing e di tre membri della polizia di frontiera coinvolti nella campagna di pulizia etnica. Frutto di nove mesi di intense ricerche, tanto in Myanmar quanto in Bangladesh, il rapporto fornisce un resoconto di come le forze armate di Myanmar abbiano costretto oltre 702.000 uomini, donne e bambini – ossia oltre l’80 per cento della popolazione rohingya presente nello Stato di Rakhine allo scoppio della crisi, il 25 agosto 2017 – a fuggire in Bangladesh. Vengono inoltre descritti arresti, sparizioni forzate e torture di adulti e ragazzi rohingya nelle settimane precedenti l’inizio della crisi, così come le violazioni commesse dal gruppo armato Esercito di salvezza dei rohingya dell’Arakan (Arsa), prima e dopo gli attacchi simultanei lanciati il 25 agosto 2017 contro postazioni di sicurezza dell’esercito, tra cui uccisioni di persone di altre etnie e fedi religiose e omicidi e rapimenti di rohingya sospettati di essere informatori delle autorità.

Basato su oltre 400 interviste, corroborate da prove quali immagini satellitari, foto e video validati e analisi di esperti militari e forensi, il rapporto porta alla luce 9 delle 11 fattispecie di crimini contro l’umanità elencati nello Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale. Gli alti comandi militari hanno schierato nel nord dello Stato di Rakhine alcuni tra i più feroci battaglioni, già famigeratamente noti per le violazioni commesse in altre parti del Paese, il 33° e il 99°, implicati secondo Amnesty International in crimini di guerra nello Stato di Kachin nel nord dello Stato di Shan tra la fine del 2016 e la metà del 2017. Sono stati documentati tre massacri su vasta scala nei villaggi di Chut Pyin, Min Gyi e Maung Nu, in cui sono state uccise migliaia di donne, uomini e bambini, sul posto, mentre fuggivano o nell’incendio delle loro abitazioni. I militari hanno stuprato donne e ragazze rohingya, sia nei villaggi che durante la fuga verso il Bangladesh. Amnesty International ha intervistato 20 donne e due ragazze sopravvissute allo stupro, 11 di loro a stupri di gruppo. L’organizzazione ha potuto documentare stupri e violenze sessuali in 16 località diverse del nord dello stato di Rakhine. Si è trattato di una prassi costante e diffusa che ha terrorizzato le comunità rohingya e che ha contribuito a cacciarle dai loro territori. Alcune sopravvissute allo stupro hanno aggiunto al trauma l’uccisione sotto i loro occhi dei familiari. In almeno un villaggio i soldati hanno lasciato le donne stuprate all’interno di abitazioni cui hanno successivamente dato fuoco.

Nei giorni precedenti e successivi agli attacchi dell’Arsa del 25 agosto 2017 le forze di sicurezza di Myanmar hanno arrestato e posto in detenzione arbitraria centinaia di uomini e ragazzi dei villaggi del nord dello stato di Rakhine. Gli agenti della polizia di frontiera hanno torturato molti detenuti per estorcere informazioni o costringerli a confessare di far parte dell’Arsa. Numerosi sopravvissuti alla tortura hanno fatto i nomi degli agenti responsabili. Tra i metodi usati, sono stati segnalati bruciature, pestaggi, waterboarding, lo stupro e altre forme di violenza sessuale.

“Stavo in piedi con le mani legate dietro la testa. Mi hanno tolto i vestiti e acceso una candela sotto il mio pene. Un agente reggeva la candela e il suo superiore gli dava gli ordini. Entrambi mi dicevano di dire la verità altrimenti sarei morto”, ha raccontato ad Amnesty International un contadino di un villaggio nei pressi della città di Tathedaung. Per ottenere il rilascio, i detenuti hanno dovuto pagare esose tangenti e firmare un documento da cui risultava che non avevano subito alcun maltrattamento. Dieci mesi dopo, le autorità di Myanmar non hanno ancora fornito informazioni su chi è ancora in stato di detenzione, dove si trovi e di cosa sia eventualmente accusato. Si tratta, per il diritto internazionale, di detenzioni arbitrarie.

Amnesty International ha esaminato documenti confidenziali riguardanti le forze armate di Myanmar, i quali indicano che durante le operazioni militari come quelle svolte nel nord dello Stato di Rakhine le forze sul terreno agiscono normalmente sotto lo stretto controllo dei più alti comandanti. Inoltre, i vertici delle forze armate, tra cui il generale Min Aung Hlaing, si sono recati personalmente sul posto prima o durante la campagna di pulizia etnica per presiedere a parte delle operazioni. Di fronte alla crescente pressione internazionale, il mese scorso le autorità di Myanmar hanno annunciato l’istituzione di una Commissione indipendente d’inchiesta per indagare sulle denunce di violazioni dei diritti umani, ma le indagini, secondo Amnesty, “sono solo servite a negare le atrocità commesse dalle forze armate”. “I vertici delle forze armate sapevano o avrebbero dovuto sapere che erano in corso crimini contro l’umanità – denuncia l’Ong -, ci sono dunque prove sufficienti per chiedere un’indagine per determinare se tutti o alcuni dei più alti ufficiali siano stati direttamente coinvolti nella pianificazione, nell’ordine o nella commissione di uccisioni, stupri, torture e incendi di villaggi”.

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