Lunedì mattina era tornato “coglione” (cit.), oggi è di nuovo fenomeno: bipolarismo critico e luoghi comuni. Sono settimane che ce la meniamo con la sindrome del secondo anno di Allegri, come se un professionista vicino ai 50 e con tanti anni di campo e panchina dietro di sé potesse e dovesse soffrire per tutta la vita degli effetti della ripartenza.
Certo, le sue seconde stagioni a Grosseto (esonero alla nona) e Cagliari (licenziato ad aprile) non furono fortunate, ma la seconda al Milan gli valse la supercoppa italiana, il miglior piazzamento in Champions (quarti di finale, eliminato dal Barcellona) e il secondo posto dietro la Juve. Il terzo il peggiore: ma lo privarono di Nesta, Gattuso, Silva e Ibra.
Oggi Allegri è quindicesimo in Serie A ma primo in Champions, da noi ha lasciato punti a Udinese, Chievo, Frosinone (e Napoli, dove ci può stare), mentre in Europa ha fatto fuori i miliardari del City (a casa loro) e i bi-campioni di Europa League, senz’altro in crisi ma ugualmente bi-campioni.
In queste settimane se ne sono sentite e lette di tutti i colori: “il primo anno ha sfruttato il lavoro di Conte, ma quando deve metterci del suo sono guai”; “è scarso, dovrebbe essere sostituito subito”; “è confuso, cambia troppe volte modulo e giocatori”. Proprio per rispondere all’accusa di eccesso di confusione lo stesso Allegri ha chiarito col sorrisetto acido alla livornese alcuni punti del suo lavoro. In primis, la necessità di dover cambiare disegno quando vengono a mancare determinati interpreti (terzino destro) e l’urgenza di individuare il sistema in grado di sfruttare al meglio le caratteristiche dei singoli.
Quando un allenatore può esibire due scudetti in cinque anni, il rincoglionimento e l’incapacità non gli appartengono: critichiamolo eventualmente day by day. Non per quello che è stato e non potrà più essere.
Ivan Zazzaroni
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