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Direttiva copyright, Internet non è morto. Anzi, potrebbe star meglio

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“Internet è ufficialmente morto in Europa” titola il sito “Motherboard” commentando l’approvazione (348 sì, 274 no, 36 astenuti al Parlamento di Strasburgo) della direttiva europea sul diritto d’autore. “E’ un giorno buio per la libertà di Internet” aggiunge il commentatore. Ma è proprio così? Davvero è così nefasta questa direttiva che si limita a equilibrare i rapporti tra editori e produttori di notizie, foto, video, musiche, film e altri prodotti culturali e le grandi piattaforme che oggi li “indicizzano”, ci guadagnano vagonate di soldi  senza riconoscere nulla o quasi nulla a chi spende lavoro, creatività, soldi e fatica per produrli?

La cosa singolare è che la direttiva colpisce (ma in parte piuttosto marginale) i grandi player (Facebook e Google) ma a ribellarsi sono i giovani “puristi” del web, i gruppi di “Pirati” digitali che inneggiano alla libertà di internet “conculcata” dimenticando che gli è già stata tolta, rubata, calpestata proprio dai grandi player che oggi, inopinatamente, finiscono per difendere.

Facebook (oltre 40 miliardi di dollari di fatturato nel 2017) e Google (110 miliardi di dollari nello stesso anno), infatti, forti dei loro algoritmi e di un mercato praticamente monopolistico hanno prosperato su un meccanismo meraviglioso: grande tecnologia distributiva, grande capacità di creare “ambienti” che rispondono alle esigenze della gente, grande “perspicacia” digitale nel “cogliere” cosa cerchiamo in rete, cosa vogliamo e nel darcelo ogni giorno senza che nemmeno siamo costretti a reiterare le nostre richieste. Ma l’altro pezzo del meraviglioso giocattolo e che i contenuti (dalle notizie al porno), la creatività, la musica, il video, non sono un loro problema. Qualcuno li produce e loro li “indicizzano” e li fanno circolare. Già che ci sono ci mettono sopra la loro pubblicità: in Italia, Google e Facebook si pappano da soli il 70 per cento della torta pubblicitaria stimata in 8,2 miliardi. Quindi, i “distributori” si prendono quasi 6 miliardi su 8 lasciando meno del 30% ai produttori. In qualunque altro mercato: dalle automobili alle patate, la cosa suonerebbe strana. Tanto è vero che, a differenza di alcuni, Google non parla di “morte di Internet”, ma si limita, più sobriamente a commentare: “La direttiva sul diritto d’autore è migliorata, ma porterà comunque incertezza dal punto di vista locale e danneggerà le economie digitali e creative dell’Europa. I dettagli contano e non vediamo l’ora di lavorare con legislatori, editori, creatori e detentori dei diritti nel momento in cui gli stati membri Ue si muoveranno per implementare queste nuove regole”.

Ma cosa cambia rispetto alla situazione attuale? La questione di fondo è la “link tax”. La riforma invita editori e grandi player a mettersi d’accordo. Facebook e Google, in sostanza, dovrebbero riconoscere un compenso a chi produce i contenuti. A quanto debba ammontare, sarà oggetto di trattativa. “Gli autori delle opere – dice la norma – incluse in una pubblicazione di carattere giornalistico ricevano una quota adeguata dei proventi percepiti dagli editori per l’utilizzo delle loro pubblicazioni di carattere giornalistico da parte dei prestatori di servizi della società dell’informazione”. I “prestatori di servizi” sono, appunto le grandi piattaforme della rete.

L’altra norma (ancora più contestata) subentra nel caso non ci sia accordo. Perché se c’è un’intesa, Google e Facebook potranno continuare a fare ciò che credono dei contenuti (questa volta, a differenza di quanto accade oggi, li avranno pagati) e nessuno si accorgerà di nulla. Organismi “no profit” come Wikipedia e le start up (con fatturato inferiore ai dieci milioni e meno di tre anni di attività) non pagheranno nulla. Dunque, solo in caso di mancata intesa (o perché le parti non si accordano sul quantum, o perché l’editore non vuol dare i suoi contenuti) entrerà in funzione l’articolo 15 della direttiva in base al quale le piattaforme saranno tenute a controllare che gli utenti non carichino contenuti protetti da copyright e, qualora, qualcosa sfugga, ne saranno responsabili e dovranno pagare. Ma potranno comunque sfangarla dimostrando di “aver compiuto i massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione” o di “aver agito tempestivamente” per eliminare i contenuti in questione.

Detto che la questione riguarda solo le grandi piattaforme e non Wikipedia (che si è stracciata le vesti e ha fatto il diavolo a quattro apparentemente senza ragione), i sostenitori della tesi secondo cui saremmo arrivati alla “fine di Internet in Europa” dicono che i grande player, per evitare problemi, saranno costretti a “censurare” l’attività degli utenti impedendo loro i “meme” (che vengono spesso fatti utilizzando materiali coperti da copyright come foto e video) e le varie forme di condivisione di testi e immagini. In realtà, già oggi (ad esempio su YouTube) i contenuti vengono “filtrati” e cancellati nel caso che l’utente che li ha caricati non sia titolare dei diritti. Di questo (c’è chi dice che il filtro funziona poco e male) nessuno si è mai lamentato nonostante, ogni giorno, su YouTube vengono cancellati materiali senza copyright. E, nel dubbio, YouTube tende a usare la mannaia.

Insomma, forse, prima di dare Internet per morto, bisognerebbe aspettare la trattativa tra editori (e produttori di contenuti in genere) e grandi piattaforme e vedere cosa ne esce. Magari (è auspicabile) si mettono d’accordo e tutti sono contenti. In secondo luogo, è davvero singolare notare che tutti quelli che hanno gridato alla fine della rete e alla censura non hanno fatto il minimo sforzo, in questi anni, per tirare fuori una soluzione accettabile per salvaguardare i diritti economici e autoriali di chi scrive, compone musica, fa film ecc. Tutti questi campioni delle libertà, in questi anni, si sono fatti fregare gusti, tendenze, propensione agli acquisti, preferenze, dati sensibili (anche molto) e quant’altro dagli algoritmi dei grandi player senza dire ne “a” né “ba”.

 

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