Euro 2020: l’editoriale di Luca Pastorino
“Vedrete quando incontreranno quelle forti”. “Con Svizzera, Galles e Turchia sono capaci tutti. “Non saranno all’altezza di Euro 2020 e non arriveranno in fondo”. “Usciranno presto”. Quanti novelli “Zarathustra” hanno popolato il sottobosco mediatico in questo mese di Euro 2020. Da Barthez a Vieira, passando per Neville e Rio Ferdinand, le Cassandre hanno cercato di esorcizzare il flusso di energia positiva emanato dalla truppa di Mancini, ma alla fine il cerchio si è chiuso.
Un cerchio che si chiude
Da Wembley a Wembley ha attraversato 29 anni il lungo abbraccio liberatorio tra Roberto Mancini e Gianluca Vialli, una di quelle immagini che parlano da sole per l’intensità trasmessa anche attraverso le immagini televisive.
E peccato non sia più il caro vecchio tubo catodico a portare nelle nostre case i ricordi di un mondo lontano. Oggi d’altronde basta uno smartphone a fissare un’istantanea che, rimbalzando da Ushuaia a Ekaterinburg, si cristallizza diventando attimo sospeso nell’infinità.
Vialli e Mancini. Compagni di sventura il 20 maggio 1992, quando nel vecchio stadio londinese (sì, proprio quello con le due torri che con la mente ci riporta alle immagini della nostra infanzia) persero una storica finale di Coppa dei Campioni con la maglia della Sampdoria.
Mancini e Vialli. Ancora loro, ma con qualche anno in più l’undici luglio 2021, a prendersi la più bella delle rivincite nel nuovo stadio di Londra (altrettanto bello con il suo arco futuristico, ma privo della sacralità del primo) alzando al cielo quella coppa Henri Delaunay che, a differenza del trofeo mondiale (Coppa Rimet o Fifa, poco cambia), per i colori Azzurri è stata una chimera per 53 lunghi anni.
Istantanee europee
Dal trionfo in bianco e nero (con vittoria della semifinale grazie alla “monetina” e della finale con la ripetizione, altri tempi) targato Riva e Anastasi ne abbiamo viste di tutti i colori.
I cantieri “premundial” del 1980 e del 1988 avevano fatto ben sperare, ma il titolo non sembrava cosa nostra. Poi è arrivata la finale maledetta di Euro 2000, quando Wiltord costrinse chi scrive a rimettere in frigo una bottiglia di spumante troppo presto uscita dal ghiaccio e pronta per essere stappata, prima che Trezeguet trasformasse quella tragedia in farsa (almeno in ambito familiare…).
E ancora Davide contro Golia nel 2012 con quel 4-0 senza appello e le emozioni altalenanti del 2016 con l’armata di Conte capace di accendere i cuori, ma allo stesso tempo sbertucciata a lungo sui social per i pittoreschi tentativi di personaggi in cerca d’autore di riscrivere le leggi della fisica in tema di calci di rigore.
Archiviate le goffe esibizioni di Zaza e Pellé, abbiamo toccato il fondo mancando la qualificazione ai mondiali del 2018. Caronte ci ha traghettato all’inferno passando dall’Ikea, ma Roberto Mancini è stato bravissimo a rimettere la chiesa al centro del villaggio andando oltre ogni più rosea aspettativa, aiutandoci a dimenticare (almeno per un attimo) un anno e mezzo di pandemia.
La chiesa al centro del villaggio
E così, tra gufi (qualcuno anche nostrano fino alla gara contro l’Austria) e Cassandre, l’Italia ha messo in riga il Belgio (ancora oggi al primo posto del ranking Fifa), la Spagna (sì, proprio loro) e i maestri inglesi che, nel tempio laico londinese, pensavano fosse tutto dovuto, una pura formalità.
No, il calcio anche questa volta ha deciso di non tornare a casa. D’altronde cerca la strada da 55 lunghi anni e persino in quel mitologico mondiale del 1966 ebbe bisogno della mappa (i navigatori satellitari non erano ancora stati inventati…) compilata dall’ineffabile arbitro svizzero Gottfried Dienst per superare la linea bianca e trasformare quella fiaba in leggenda.
Chissà, forse se ne riparlerà fra un anno e mezzo, sotto Natale, dopo un folle viaggio attraverso la penisola arabica. Cominciate a impostare il navigatore, ci si vede in Qatar. It’s Coming home?
Luca Pastorino
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