“Siamo molto indietro, ma come lo è tutto il primo mondo. Parliamo di un problema conclamato, dalla Germania al Canada, un problema serio e generale”. Se il tema dell’invecchiamento delle infrastrutture stradali riguarda tutti i Paesi dove si è iniziato a costruire dagli anni Quaranta, a essere comune è anche la mancanza di risposte all’avanguardia e applicabili su larga scala, spiega Marco Bonvino, ceo e fondatore di Sysdev, startup nata nel 2015 e incubata presso I3P, l’incubatore di imprese innovative del Politecnico di Torino.
“Finora si sono fatte solo autopsie, bisogna imparare a fare check-up”, spiega il numero uno di Sysdev, alla quale si deve il primo sistema integrato per il monitoraggio strutturale e ambientale di edifici e opere come ponti e gallerie. Shbox, questo il nome di quella che i suoi stessi progettisti definiscono “la prima scatola nera delle infrastrutture“, è stata installata in via sperimentale su un viadotto del raccordo autostradale Torino-Caselle, nel quadro di una collaborazione con Anas. Intervistato da LaPresse, Bonvino spiega quale potrebbe essere il nuovo paradigma della prevenzione, in questo campo.
Il crollo del Ponte Morandi ha acceso i riflettori su un tema molto vasto. Quali sono i punti cruciali da tenere in considerazione? Per ragioni di costo, fino a questo momento il monitoraggio è stato limitato alle grandi strutture. Ma in Italia i ponti sono 12 mila, sono stati costruiti quando il calcestruzzo era considerato un materiale eterno e spesso hanno sopportato un traffico molto superiore a quello per cui erano stati pensati in origine. Considerati i soldi e le tempistiche di cui si dispone, è chiaro che occorre prima di tutto capire dove concentrare gli sforzi.
Quale approccio proponete? Siamo di fronte a un problema tecnologico generale, che va affrontato con un salto tecnologico. Ma anche con un cambio di cultura. Veniamo da una cultura della misura precisa, ma è una cosa che in certi termini è possibile solo in laboratorio. Se parliamo di infrastrutture come i ponti, bisogna ricordare che nessun ponte è uguale all’altro. E anche se due ponti fossero uguali a livello di costruzione, non lo saranno di certo le condizioni ambientali e quelle del terreno. Noi pensiamo che la strada da percorrere sia quella dei big data, quindi di un approccio statistico alla misura.
Tecnicamente come funziona la soluzione che avete studiato? Il nostro è un sistema di sensori veloci da installare, il cui costo è inferiore a quello delle attuali ispezioni visive che vengono fatte quattro volte all’anno e che permette di generare una quantità di dati sufficiente a lavorare su base statistica, in modo da arrivare a una manutenzione predittiva. Come già si fa in aeronautica, ad esempio. Un vantaggio è che in questo modo, mentre si fa prevenzione, si accumula anche conoscenza. Poi, a livello pratico, si tratta di installare qualche centinaio di sensori e quindi di creare un modello digitale della struttura assegnando alle varie misurazioni delle soglie d’allarme. Bastano pochi mesi di misurazioni per accumulare abbastanza dati da essere in grado di individuare le principali anomalie. Tra l’altro, i dati possono essere condivisi tanto dal controllato quanto dal controllore, ampliando le possibilità di verifica. E se si decidesse di andare verso un sistema standardizzato, come si è fatto con le emissioni delle auto, si potrebbero anche comparare le informazioni che provengono da strutture diverse.
Qualcosa si sta muovendo in questo senso? Con Anas abbiamo iniziato la sperimentazione sul ponte Stura in primavera e in autunno consegneremo il nostro lavoro alla società. Se vogliamo guardare all’estero, abbiamo parlato con l’ente federale tedesco durante un recente convegno sulla manutenzione stradale al quale abbiamo partecipato a Nizza, e abbiamo visto che anche loro cominciano a ragionare sugli “smart bridge”. In generale, parliamo comunque di un ambito in cui è ancora tutto da fare. Chiaro che per farlo occorre prima di tutto iniziare.