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Libia, FederPetroli: “Stop business e via da siti a rischio”

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“Non è più possibile continuare a trattare per proseguire gli investimenti e le attività economiche petrolifere in Libia. Le trattative sono bloccate. Al momento è massima allerta per la nostra operatività: non possiamo esporre a rischio risorse umane, attività e le stesse aziende di settore. La situazione non è più controllabile“. È l’allarme lanciato, alla luce della situazione libica, da Michele Marsiglia, presidente della FederPetroli Italia, la Federazione petrolifera indipendente che rappresenta le compagnie petrolifere e gran parte dell’indotto dalle risorse minerarie, dai pozzi alle piattaforme, alla distribuzione di carburante al ‘non oil’. Fra queste una una cinquantina di imprese, medio grandi, che operano anche in Libia.

“A questo punto sembra sfumata davvero ogni prospettiva di stabilità. Da circa un anno – dice Marsiglia a LaPresse – avevamo iniziato una fase di recupero economico per le aziende che sono rimaste danneggiate dal mancato incasso delle attività svolte su alcuni giacimenti. Dal 2011, quando la Libia faceva quasi 2 milioni di barili al giorno, la situazione ha iniziato a precipitare. Un effetto domino per tante aziende che hanno contribuito alla realizzazione di infrastrutture per l’estrazione di olio e gas, con un indotto internazionale che ha investito risorse in questi anni in Libia, dove c’è oltre il 50% di risorse petrolifere ancora da sfruttare”. Oggi però i barili sono diventati 500mila al giorno. Molte aziende col loro indotto e tante piccole raffinerie da allora non sono state pagate, come sottolinea FederPetroli: “Parliamo di decine di milioni di euro da recuperare e attrezzature consegnate ma ormai diventate obsolete”. Un indotto che dà lavoro a 60mila persone che vanno e vengono dalla Libia o sono fisse in quel Paese. Lo stop blocca la fase di respiro per le imprese petrolifere operative in Libia iniziata nel 2014. Ora, con l’aggravarsi della crisi libica, le imprese sono piombate in uno “stand by”. Si tratta di aziende che fanno pipe line, distribuzione di olio e petrolio, e attrezzature per le stazioni del greggio. Le banche bussano: “Chiedono indietro quanto sborsato per gli investimenti. Basti pensare che non è più nemmeno possibile fare incontri e meeting d’affari persino a Tripoli dove c’è paura a mettere piede”, è la fotografia della situazione che descrive Marsiglia. Perché “l’impatto per l’indotto internazionale dell’Oil and Gas non è da poco, visto che sono già in ritardo diversi progetti e lontani i livelli produttivi di anni fa”. La preoccupazione c’è, e Marsiglia non la nasconde: “Al momento ci risulta che alcune strutture petrolifere hanno richiamato il personale su alcuni siti di elevato rischio, protetti con servizi di sicurezza privati. Federpetroli attende nelle prossime ore di conoscere l’evolversi della situazione per avere informazioni più chiare e organizzare piani di azione”.

Dal petrolio alle telecomunicazioni, passando per le costruzioni e i trasporti, sono molteplici i settori in cui operano le imprese italiane presenti in Libia. A partire dalle grandi aziende, soprattutto nei settori del petrolio e del gas di un colosso come Eni, che conferma però che allo stato attuale non c’è personale espatriato presente a Tripoli e che le sue attività nel Paese al momento procedono regolarmente. Nel 2017 la produzione in quota Eni è stata di 384 mila barili equivalenti di petrolio al giorno, il livello più elevato registrato storicamente dal gruppo in Libia. Il 5 luglio 2018 – fa sapere Eni – è stato inoltre avviato il progetto Bahr Essalam fase 2, che “completa lo sviluppo del più grande giacimento a gas in produzione nell’offshore libico, incrementando il potenziale produttivo di circa 400 milioni di piedi cubi di standard gas al giorno”. La fase due – informa il cane a sei zampe – sarà completata tra settembre e ottobre. 

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