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Messico, battaglia esercito-narcos: niente arresto per il figlio di El Chapo

Foto AP-LaPresse - Tutti i diritti riservati

Da El Chapo al Chapito il passo è abbastanza breve, quasi fisiologico. Così, mentre Joaquin Guzman da luglio sta scontando l’ergastolo in un carcere di massima sicurezza negli Stati Uniti, la battaglia per uno dei suoi dieci figli, al secolo Ovidio Guzman Lopez, ha sconvolto il Messico. Il piccolo Chapo, infatti, è assurto a protagonista di scene da film hollywoodiano nella città di Culiacan, nello stato di Sinaloa, dove è stato localizzato e arrestato dalla polizia. Salvo poi essere liberato perché, dicono le autorità locali, era indispensabile “proteggere vite umane”. L’operazione condotta dalle forze dell’ordine messicane ha innescato la terribile reazione dei narcos che hanno dato vita a dieci ore di guerriglia, con sparatorie, auto date alle fiamme e – secondo alcune fonti – anche morti. Le immagini ‘rapite’ dai telefonini e immesse in rete sono raccapriccianti, quasi al confine dell’immaginabile.

Soprannominato El Rato, cioè Il Topo, il 28enne Ovidio emulando il padre ha dimostrato di avere un senso spiccato per gli affari illegali. Le ricostruzioni dei media messicani gli attribuiscono la gestione di una parte dell’impero del Chapo, tanto che nel 2018 le autorità statunitensi hanno spiccato un mandato di arresto nei suoi confronti per traffico di cocaina e marijuana. Pur essendo (ben) conosciuto dalla giustizia locale, è la prima volta che Ovidio Guzman balza agli onori delle cronache nazionali e internazionali con tanta veemenza. Non a caso, la meccanica dell’accaduto ha dell’incredibile.

Una trentina di agenti della Guardia Nazionale in azione di pattugliamento è stata investita da una pioggia di proiettili provenienti da una casa. Entrati in azione, i militari hanno fatto irruzione nell’abitazione e tra gli occupanti hanno trovato anche Ovidio, che è stato trattenuto. Ma a quel punto è scoppiato l’inferno, decine di sicari del cartello sono arrivati da tutto lo stato di Sinaloa e hanno messo a ferro e fuoco Culiacan, città di circa 800mila abitanti. Si sono viste scene di violenza estrema  contro la pattuglia della Guardia Nazionale, che faticava a difendersi, e contro normali cittadini che si trovavano nelle vicinanze. Si sono alzate colonne di fumo nero, sono state incendiate auto e camion, sono entrati in azione anche alcuni mezzi con mitragliatrici montate a bordo, in perfetto stile militare.

Esplosioni e spari sono andati avanti fino a mezzanotte, cioè fino a quando Ovidio Guzman è stato rilasciato per scongiurare che la ribellione assumesse i contorni della strage. Un gesto di buonsenso, quello delle autorità messicane (“Non potevamo mettere in pericolo altre vite umane”, ha spiegato il presidente Andres Manuel Lopez Obrador), che però può essere letto come debolezza. Una debolezza che rende forte i Guzman, padre e i figli; una debolezza che rischia di avere ripercussioni nel futuro immediato del Messico e dello Stato di Sinaloa.

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