Avrebbero fatto “il botto“. Sono queste le parole pronunciate qualche giorno prima dell’incendio di via Chiasserini a Milano da uno degli arrestati per l’indagine su traffico rifiuti che oggi ha portato all’esecuzione di 15 misure cautelari. “Qualche giorno prima dell’incendio di via Chiasserini ha detto (al suo interlocutore, ndr) che il lavoro stava andando bene ‘e che avrebbero fatto il botto’ e la mattina del 15 ottobre, giorno successivo all’incendio” sempre alla stessa persona “ha detto ‘hai sentito, abbiamo finito’, tanto che il suo interlocutore – si legge nell’ordinanza del gip Giusy Barbara – ha immediatamente ricollegato quelle affermazioni ai discorsi precedenti sulle modalità di ‘smaltimento’ dei rifiuti stipati nei magazzini e al devastante incendio ancora in corso nella periferia nord di Milano”.
“E’ altamente probabile che l’incendio sia servito a smaltire illegalmente, bruciandoli, i rifiuti“, scrive la gip, sottolineando la natura “dolosa” del rogo, che ha interessato un’area di circa 18mila metri quadri. Un rogo “di tale intensità da richiedere per il suo spegnimento l’immediato invio di dieci automezzi e l’impiego complessivo per più giorni (sino al 19 febbraio) di ben 172 equipaggi dei vigili del fuoco”. Dalle indagini, scrive ancora la gip, “è emerso che pochi giorni prima dell’incendio, precisamente l’11 ottobre 2018, tecnici della Città metropolitana di Milano, insieme ad ufficiali di polizia giudiziaria della polizia locale, avevano effettuato un sopralluogo”, constatando la presenza “di circa 16mila metri cubi di rifiuti”. La tesi degli inquirenti è che i rifiuti siano stati bruciati “per i sopravvenuti ostacoli a trasferirli in altri siti oppure nascondere le prove del traffico di rifiuti svolto dalle indagini, dopo il sopralluogo di pochi giorni prima” che aveva portato alla scoperta del sito di stoccaggio abusivo.
L’ispezione dell’11 ottobre era stata effettuata a seguito della segnalazione del proprietario della struttura di via Chiasserini, titolare della Ipb Srl, società da lui amministrata e posseduta dalla sua famiglia. Dall’1 marzo 2018 Ipb Italia Srl, secondo quanto ricostruito, aveva preso possesso dell’attività ma erano sorti problemi in merito alla voltura delle autorizzazioni alla gestione e stoccaggio rifiuti, “perché la società subentrante avrebbe dovuto fornire alla Città metropolitana di Milano una fidejussione bancaria/assicurativa a copertura dei rischi di inquinamento ambientale”. A detta della Ipb Srl la fidejussione non era stata fornita “ma, ciononostante, Ipb Italia Srl aveva cominciato da subito a stoccare nell’area, in particolare nel capannone andato a fuoco, una quantità di rifiuti che nel tempo era diventata ingente”. Il titolare della Ipb aveva inoltre fornito alla polizia giudiziaria fotografie scattate col suo telefono cellulare, in cui si vedeva chiaramente il capannone, poi distrutto dall’incendio, “pieno di rifiuti confezionati in balle”. Erano inoltre sorti problemi in merito al pagamento dell’affitto, e il titolare della Ipb aveva denunciato di essere stato minacciato dalla Ipb Italia.
In occasione del sopralluogo dell’11 ottobre, tre giorni prima dell’incendio, “non si era proceduto al sequestro dell’intera area”, si legge nell’ordinanza, come invece “sarebbe stato auspicabile e necessario, perché – spiega Barbara – il funzionario di Città metropolitana era privo della qualifica necessaria” e gli operatori della polizia locale che lo accompagnavano “avevano ritenuto necessario verificare preliminarmente la fondatezza di quanto riferito dal direttore dello stabilimento”, ovvero che i rifiuti erano stati lasciati dai precedenti occupanti dell’area, e non fossero gestiti da Ipb Italia Srl. Le indagini hanno accertato “in modo assolutamente univoco” che tutti i rifiuti depositati e andati a fuoco la notte del 14 ottobre “sono stati conferiti l’1 marzo 2018” e, quindi, dopo la presa di possesso del capannone da parte di Ipb Italia Srl.