“Non voglio più vivere nascosto“. Queste le parole di Salman Rushdie a proposito della fatwa che lo perseguita da quasi trent’anni. Fu l’ayatollah Khomeini, prima guida iraniana, a pronunciare il 14 febbraio 1989 la ‘sentenza’ di morte per lo scrittore anglo-indiano, considerato colpevole di aver scritto ‘I versi satanici‘. L’ayatollah ritenne il libro blasfemo e invitò i musulmani di tutto il mondo a ucciderne l’autore. Ora Rushdie rifiuta di nascondersi, come ha fatto dal 1989 al 2002, ma ha dovuto accettare di vivere sotto scorta della polizia. Incontrato di recente da AFP nella sede del suo editore a Parigi, è impossibile non notare la presenza costante di numerosi poliziotti in borghese.
La fatwa non è mai stata revocata e ha provocato varie vittime: nel 1991 il traduttore italiano Ettore Capriolo fu gravemente ferito e nello stesso anno il traduttore giapponese Hitoshi Igarashi fu accoltellano a morte; nel 1993 l’editore norvegese William Nygaard fu gravemente ferito a colpi d’arma da fuoco e il traduttore turco Aziz Nesin sfuggì a un incendio doloso che causò 37 decessi. Il libro, dice oggi Rushdie, è stato “gravemente incompreso“, “si trattava di un romanzo che parlava d’immigrati dell’Asia del Sud a Londra, la loro religione non era che un aspetto di quella storia”. Quando gli si domanda se sia pentito di aver scritto ‘I versi satanici’, lo scrittore risponde in francese sorridendo: “Io sono come Edith Piaf, ‘Je ne regrette rien'” (non rimpiango niente).