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Alexander Lukashenko, l’ultimo dittatore europeo

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 Non è un caso che il primo, nello sparuto drappello di leader mondiali a complimentarsi con Alexander Lukashenko per la sua ennesima vittoria elettorale sia stato Vladimir Putin. Il Presidente Bielorusso è infatti da sempre un campione della causa pro sovietica prima e pro russa negli anni successivi. Le mani sul potere nell’ex stato satellite di Mosca Lukashenko le ha messe da più di 4 lustri, quello guadagnato ieri sarebbe il suo sesto mandato consecutivo. Una longevità oscura che gli ha meritato il soprannome di “ultimo dittatore europeo”. Classe 1954, laureato all’Accademia d’Agricoltura Bielorussa, è stato insegnante e poi giovane funzionario comunista, con incarichi nell’organizzazione delle aziende agricole di Stato. Deputato nel 1990, dà vita al gruppo parlamentare Comunisti per la Democrazia e si distingue per la strenua opposizione alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Campione da sempre della dottrina più conservatrice e nostalgica del comunismo post URSS diviene noto alle cronache internazionali per un suo appassionato discorso alla Duma di Mosca in favore della creazione di una nuova Unione degli Stati slavi. Un’arringa che non passerà inosservata e che gli farà guadagnare simpatie inossidabili nella Grande Russia.

 

 Nel 1994 è eletto Presidente della Bielorussia e negli anni successivi tesse con l’omologo russo Boris Yeltsin una tela di accordi economici e strategici fondamentali per i due paesi. La politica del neo presidente è da subito improntata alla conservazione sorda ad ogni riforma, alla repressione della dissidenza e della libera informazione. I rapporti con i vicini europei sono molto complessi e Minsk viene presto isolata dalla comunità internazionale. Con l’eccezione dell’amico russo che mantiene con Minsk rapporti bilaterali sempre più stretti e intensi. La costruzione di un regime basato su di un indiscusso e indiscutibile potere personale diventa allora inesorabile: il primo mandato viene prolungato in modo artificiale e getta le basi per la rielezione di Lukashenko nel 2001, un voto giudicato irregolare e quindi invalidato dagli osservatori internazionali. Durante il secondo mandato il Presidente impone una controversa riforma costituzionale che gli permette di correre, e vincere ancora, nel 2006 fra denunce di intimidazioni, clamorosi brogli e rifiuto di qualsiasi nuovo monitoraggio esterno. Arriva l’ostracismo dell’Unione Europea e il divieto di ingresso per il leader bielorusso in qualsiasi stato membro comunitario. Le proteste popolari sono represse dai cingolati e manganelli delle forze dell’ordine. Diversi i capi dell’opposizione arrestati.

 I rapporti con la Russia subiscono in quegli anni qualche scossone ma principalmente per divergenze sulla politica energetica e sul fronte degli equilibri geopolitici nel tormentato e vasto territorio ex sovietico. Lukashenko mette allora in atto un’abile strategia di riavvicinamento all’Europa, fino ad ottenere nel 2009 l’ingresso della Bielorussia nel programma di cooperazione europea con gli stati orientali. Uno spostamento di equilibri destinato a non durare, complice nuove controverse elezioni vinte nel 2010 ancora una volta a mani basse dal presidentissimo, insieme al ripetersi di proteste e manifestazioni schiacciate con il pugno di ferro e quindi ad una drammatica crisi economica che si abbatte sul paese. Da una parte l’Europa chiude i ponti, dall’altra la Russia apre le casse e salva il paese (e Lukashenko) dalla bancarotta. Gli anni che portano alla vittoria di un quinto clamoroso mandato nel 2015 e all’ipoteca messa sulla tornata elettorale di domenica, si dipanano lungo i drammatici, lineari e monotoni binari di un regime. L’ultimo, fino ad oggi, che l’Europa annoveri nei suoi confini

 

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