Il Tribunale di Roma ha condannato il Ministero della Difesa al risarcimento di un milione e 300mila euro per la morte del sottoufficiale Camillo Limatola, scomparso il 1 agosto del 2013 a soli 59 anni per mesotelioma da esposizione ad amianto. Camillo, dipendente della Marina prima in Sardegna e poi a Napoli, era stato imbarcato sull’incrociatore Vittorio Veneto. Nel 2011 gli venne diagnosticato un mesotelioma che non gli lasciò scampo. Prima di morire era stato riconosciuto come vittima del dovere con la conseguente liquidazione ai familiari, ottenuta dopo numerose diffide del presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto, l’avvocato Ezio Bonanno, legale della famiglia.
Consapevoli che il mesotelioma derivava dall’amianto presente sulle navi dove aveva lavorato il sottoufficiale, la vedova, Maria Rosaria Ducadeo e i figli Antonietta e Vincenzo, che alla morte del padre avevano 33 e 28 anni, hanno portato avanti una battaglia per ottenere il risarcimento di tutti i danni dal Ministero della Difesa. Secondo quanto si legge nella sentenza del giudice Claudio Patruno negli ambienti dove Limatola lavorò “era presente e frequente l’amianto” e che all’equipaggio non venivano fornite “tute, guanti, o maschere filtranti”, né erano presenti “adeguati sistemi di depurazione dell’aria, o sistemi di isolamento sicuro del minerale”. Inoltre l’attività che l’equipaggio svolgeva “avveniva inoltre in locali abbastanza angusti, cosa che favoriva un’alta concentrazione delle fibre di amianto nell’aria. Anche nella sede della base della Marina Militare di Napoli – si legge sempre nella sentenza- il minerale era stato ampiamente utilizzato, sia in forma compatta che fibrosa, e anche in questa sede il personale lavorava senza adeguata protezione“.
“Per noi è importante avere avuto giustizia – ha dichiarato il figlio di Camillo, Vincenzo Limatola, dopo aver saputo della sentenza favorevole – perché la nostra famiglia ha patito enormi sofferenze dopo la terribile diagnosi e la morte di papà”. Proprio il riconoscimento del danno psicologico sofferto dai familiari segna la chiave di svolta della sentenza, come affermato dall’avvocato Bonanno, perchè “morire al lavoro è qualcosa che non può essere accettato”. Bonanno affida a LaPresse il suo appello al “Capo dello Stato, a tutte le istituzioni e le forze politiche, oltre che al Ministero della Difesa, perchè si eviti il paradosso per cui le vittime del dovere per l’esposizione ad amianto debbano sempre ricorrere alla magistratura per avere riconosciuti i loro sacrosanti diritti imposti dalla legge”. Una sentenza che “aiuta a illuminare le legislazione per quanto riguarda le vittime dell’amianto”, aggiunge a LaPresse Bruno Pesce, vicepresidente dell’Afeva (Associazione familiari vittime amianto) ma “è di primo grado e le sorprese più amare le abbiamo avute particolarmente in Cassazione” con la speranza che “dopo questa sentenza si aggiornino anche i giudici”.