Luigi Di Maio ormai non ci dorme la notte. Deve scoprire di chi è la ‘manina’ che avrebbe cambiato le stime sulle possibili perdite di posti di lavoro, nella relazione tecnica allegata al suo decreto Dignità, passate “in una notte” da 8mila a 80mila.
Escluso dalla lista dei ‘sospettati’ il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ‘salvati’ i funzionari della Ragioneria di Stato, le attenzioni del vicepremier e ministro dello Sviluppo economico si sono concentrate soprattutto sull’Inps. Anzi, sul suo presidente Tito Boeri. Fosse per l’alleato Matteo Salvini, l’economista sarebbe già andato a casa, ma Di Maio, che comunque considera “il numero della relazione una questione da chiarire ancora”, preferisce attendere che il mandato termini alla scadenza naturale, nel 2019. Anche perché “la legge non ci consente di rimuoverlo”.
Però reagisce con tutte le ‘armi’ a sua disposizione. Con la comunicazione, innanzitutto, perché ad ogni occasione buona ribadisce il solito concetto: il provvedimento che porta la sua firma “non fa licenziare nessuno, io non voglio mandare a casa nessuno, voglio solo ridurre il precariato per i nostri giovani”. Anzi, prova il ribaltone: “Volevano far paura agli italiani con un numerino della relazione tecnica, ma non ci sono riusciti”. Quindi “bisogna andare avanti”.
Di sicuro il testo subirà delle modifiche, come annuncia lo stesso ministro parlando di “incentivi” per provare ad aumentare il numero dei contratti a tempo indeterminato e contemporaneamente abbassare il costo del lavoro, in questo modo andando incontro alle esigenze dei lavoratori ma anche delle imprese. In questa ‘battaglia’, Di Maio a grande sorpresa trova un alleato insperato e molto importante, il presidente della Camera Roberto Fico. Secondo logica questo dovrebbe essere considerato ‘normale’, visto che entrambi fanno parte del Movimento 5 Stelle e rappresentano sensibilità forti all’interno della galassia pentastellata; la realtà dei fatti è diversa e non era assolutamente scontato che la terza carica dello Stato prendesse posizione in modo così netto. O almeno senza lasciare spazio a dietrologie o ambigue letture tra le righe, come: “Se Luigi dice che c’è complotto, gli credo”. Un amico gli servirà, in particolare quando di fronte avrà le opposizioni con il coltello tra i denti, pronte a sfruttare ogni minimo passo falso della maggioranza.
Per Forza Italia, ad esempio, “la manina non esiste”, come dice Mara Carfagna, mentre Renato Brunetta vede il ricompattamento del centrodestra nelle aule parlamentari contro un testo che è “una vera e propria sciagura”, secondo Mariastella Gelmini. Accuse confermate anche dall’ex premier Matteo Renzi, oggi ‘senatore semplice’ del Pd: “Salvini attacca me e il mio governo sull’immigrazione per non parlare di economia e degli 80mila posti di lavoro in meno voluti da Di Maio”.
Il nuovo inquilino di Palazzo Chigi, invece, spende parole d’elogio per il suo vicepremier. “Il decreto Dignità mira a combattere il precariato e contrastare l’abuso dell’uso dei contratti a tempo determinato”, dice infatti Giuseppe Conte al Tg1. “Quelle premesse che parlano di una disoccupazione generata dal decreto mi sembrano destituite di plausibilità”, aggiunge. Anche il presidente del Consiglio, però, un ‘consiglio’ al suo giovane alleato lo consegna: “Bisogna tener conto dei meccanismi incentivanti per convertire i contratti a tempo determinato a tempo indeterminato”. Senza questo passaggio, infatti, il testo rischia davvero di non produrre gli effetti sperati. Manina o non manina.