Il decreto Dignità di Di Maio come controriforma del Jobs act del governo Renzi? “Direi proprio di no. Il Jobs act era una riforma articolata in 8 decreti legislativi emanati nell’arco del 2015, riguardanti un’ampia gamma di materie. Nel decreto Dignità ci sono soltanto due norme, che riguardano i contratti a termine e marginalmente la disciplina dei licenziamenti. Sono ritocchi che non credo avranno grandi effetti sul tessuto produttivo. Gli annunci sono stati roboanti, ma di fatto la montagna ha partorito un topolino“. E’ Pietro Ichino, giuslavorista, già senatore del Partito democratico, considerato il padre del Jobs act, a commentare con LaPresse il primo provvedimento del governo Lega-M5S, in materia di lavoro e fisco.
Professore, cosa pensa dell’intervento del decreto Dignità con l’indennità minima in caso di licenziamento che sale da 4 a 6 mesi? Fu proprio lei a proporre il contratto a tutele crescenti nel 1996 e a tradurlo in disegno di legge nel 2009.
La struttura della disciplina resta sostanzialmente invariata. L’unica modifica di un qualche peso è l’aumento del 50% dell’indennizzo per i licenziamenti nei rapporti a tempo indeterminato; osservo soltanto che questa misura va in direzione opposta rispetto all’intendimento del governo di disincentivare i contratti a termine.
E questo in cosa si traduce?
Significa che nei primi 2 anni di lavoro stabile, se le cose vanno male e l’impresa intende sciogliere il rapporto di lavoro, il costo per l’azienda non è più di 4 mensilità ma di 6 mensilità. E ciò va nella direzione dell’aumento dei contratti a termine, perché induce l’imprenditore a non assumere in modo stabile, cioè a tempo indeterminato. Vedo in questo una contraddizione.
E della durata massima dei contratti a termine, che scende da 36 a 24 mesi, cosa pensa?
E’ apprezzabile, ma non avrà un’incidenza rilevante perché la quota di casi in cui il contratto a termine supera i 24 mesi rispetto al totale è minima. Un peso maggiore potrebbe avere l’introduzione della causale nelle proroghe, con l’imprenditore che dovrà indicarne il giustificato motivo. Questo tornerà a far aumentare il contenzioso giudiziale che prima della riforma era abnorme e che dopo si è ridotto di oltre 2/3.
Con che effetti? Ci saranno più disoccupati? Le imprese sono già preoccupate?
Non direi più disoccupati, anche se il decreto può avere un effetto depressivo sull’afflusso degli operatori internazionali: la volatilità della normativa è un costo in più per le imprese. L’incertezza dell’esito del giudizio porta all’aumento delle liti, l’incertezza non giova né al lavoratore, né all’imprenditore. Se il Paese dà poco affidamento sulla calcolabilità dei rischi, le imprese tendono ad andare altrove. Si tratta comunque di effetti marginali.
Lei cosa imputa ai due governi precedenti, di Renzi e Gentiloni, nell’attuazione del Jobs act?
Nel paragrafo 14 del programma di governo Lega-M5S era contenuta una cosa giusta: si diceva che dobbiamo investire nel sistema dei servizi per l’impiego e farli funzionare meglio. In questo c’era una critica implicita, fondatissima, ai governi Renzi e Gentiloni, che non avevano saputo implementare sotto questo aspetto la riforma. In particolare, la sperimentazione dell’assegno di ricollocazione è rimasta al palo. E proprio su questo io avrei auspicato di vedere una iniziativa immediata del nuovo governo, del ministro del Lavoro Luigi Di Maio. Invece l’aspetto è stato accantonato. Ristrutturare l’amministrazione pubblica è sempre difficile, perché bisogna superare le resistenze al cambiamento e avere in mente un modello operativo manageriale. Su questo terreno vedo una certa impreparazione del personale politico che ora ha in mano il governo del Paese.