Non che gli argomenti di discussione manchino, per i tre maggiori schieramenti che a marzo si sfideranno alle urne. Ma quello relativo alla lotta alla povertà e allo strumento più adatto per contrastarla pare essere in questo momento più caldo. Per il centrodestra Silvio Berlusconi ha lanciato la proposta di un “reddito di dignità”, incassando una accusa di plagio dal candidato 5 stelle, Luigi Di Maio, che ha ricordato come il fronte grillino propugni da anni l’idea di un “reddito di cittadinanza”. Matteo Renzi ha a sua volta bacchettato entrambi, sostenendo via Twitter che per le proposte della concorrenza è impossibile pensare a coperture credibili. Nell’ultima legislatura, il centrosinistra si è dal canto suo mosso su questo terreno prima col Sia, cioè il Sostegno per l’inclusione attiva, e quindi con il Rei, il Reddito di inclusione che sarà erogato a partire dal 1° gennaio.
Se Pd, M5S e Forza Italia hanno ciascuno la sua ricetta, sarebbe comunque sbagliato pensare che il reddito di sussistenza sia una specificità italiana o una novità. Sul tema del “basic income”, infatti, economisti e governi di tutto il mondo dibattono e sperimentano soluzioni da decenni. Lo stesso Berlusconi ha citato come ispiratore della sua proposta Milton Friedman, nume tutelare del neoliberismo. L’economista statunitense affrontava la questione già nel 1962, nel saggio ‘Capitalismo e libertà’, parlando non di reddito ma di “imposta negativa”. In sostanza, un credito concesso dal sistema fiscale a chi non guadagna abbastanza.
Per trovare applicazioni pratiche molto vicine al concetto di “reddito di base”, non bisogna però guardare né agli Stati Uniti né all’Europa. Le sperimentazioni più radicali, in questo senso, si sono viste piuttosto in Canada, Namibia, Iran e India. Con risultati, per altro, di notevole interesse e dai quali non sarebbe insensato provare a trarre spunti, sia riguardo agli effetti delle misure che rispetto alle possibili vie di finanziamento. Tra il 2011 e il 2013, seimila abitanti del Madhya Pradesh sono stati al centro dei progetti pilota Mpuct e Tvuct, con sovvenzioni distribuite in modo paritario e senza obblighi rispetto a come spendere il denaro ricevuto. Al termine della sperimentazione, l’economista Guy Standing ha definito i redditi garantiti “potenzialmente trasformativi”, sottolineando la loro capacità di “permettere alle persone di acquisire maggior controllo delle proprie vite”.
Di “risultati impressionanti” parla anche la Big Coalition, l’alleanza di soggetti del terzo settore che nel biennio 2008-2009 ha implementato a Mitara e Otjivero, in Namibia, un esperimento chiamato appunto Big (Basic Income Grant). Il netto calo nella percentuale di cittadini sotto la soglia di povertà – scesa in un anno dal 76% al 37% – ha spinto la coalizione a progettare un allargamento del modello su scala nazionale. Il costo si sarebbe aggirato tra il 2,2% e il 3% del Pil, con le coperture che secondo i promotori avrebbero potuto essere trovate in una rimodulazione dell’Iva combinata a un aumento delle imposte sui redditi. Opzione che il governo della nazione africana non risulta aver mai preso in considerazione.
Anche l’esecutivo canadese non si è mai pronunciato riguardo a quello che è un po’ il padre di questi esperimenti: il Mincome, andato in scena tra il 1974 e il 1979 nella provincia di Manitoba. In assenza di un report finale, l’Istituto per la ricerca Sociale ed Economica della University of Manitoba ha comunque reso accessibili i dati raccolti, lasciando ai singoli accademici la facoltà di trarre le proprie conclusioni. Esattamente ciò che hanno fatto Derek Hum e Wayne Simpson, autori di uno studio focalizzato sul rischio, paventato da molti, che misure di questo tipo disincentivino la ricerca di lavoro. “I nostri risultati – sintetizzano i due ricercatori – suggeriscono che queste paure siano in larga parte fuori luogo”.
Grossomodo la stessa conclusione alla quale sono arrivati Djavad Salehi-Isfahani e Mohammad H. Mostafavi-Dehzooei, i due economisti iraniani che hanno analizzato gli effetti del reddito di base introdotto a livello nazionale nel 2011 da Teheran e inizialmente oggetto di critiche dello stesso segno. Nel loro report i due studiosi spiegano di aver voluto “spostare l’onere della prova su chi sostiene che i trasferimenti di contante rendano i poveri pigri”. Un pregiudizio con cui i politici italiani, in piena campagna elettorale, non sembrano preoccupati di doversi scontrare.