Birmania e Bangladesh hanno concordato di rimpatriare i membri della minoranza musulmana Rohingya, recentemente sfollati per una repressione dell’esercito, in due anni. Lo ha fatto sapere Dacca, tramite una nota del governo, in cui afferma che l’accordo, raggiunto in Birmania questa settimana, prevede che il processo sarà “completato preferibilmente entro due anni dall’inizio del rimpatrio”. È la prima volta che la questione viene affrontata in termini di tempi.
L’intesa si applica ai membri della minoranza fuggiti dalla Birmania nelle due principali ondate di violenza dall’ottobre 2016, non ai rifugiati che vivevano in Bangladesh già in precedenza, stimati dalle Nazioni unite in 200mila. Mohammad Sufiur Rahman, ambasciatore del Bangladesh in Birmania, ha precisato: “Dovremmo iniziare il processo nei prossimi giorni”, sebbene rispettare la scadenza per l’avvio fissata dalla Birmania alla prossima settimana “non sia possibile”. L’accordo segue un’intesa tra i Paesi a novembre, che aveva aperto la strada ai rimpatri dal 23 gennaio, data che probabilmente slitterà a causa delle difficoltà legate all’operazione di confine.
Naypyidaw ha subito una forte pressione diplomatica perché garantisse il ritorno in sicurezza dei rifugiati, cacciati dal suo esercito. Tuttavia, molti rifugiati che vivono nei campi profughi in Bangladesh si dicono riluttanti a tornare nello Stato di Rakhine, dopo essere scappati da atrocità che includono omicidi, stupri e attacchi incendiari. Una campagna di repressione così violenta da indurre l’Onu a parlare di pulizia etnica.
Nonostante ciò, la Birmania ha allestito un “campo temporaneo” nel distretto di Maungdaw, nello Stato di Rakhine. Il luogo potrà “ospitare circa 30mila persone nei suoi 625 edifici”, prima che possano reinsediarsi in via permanente, hanno riferito i media. Sinora soltanto una parte delle strutture è però stata completata.