La quota vincente
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Running, a Boston la maratona che ha spezzato il cuore anche a Kipchoge

A destra su Hereford, a sinistra su Boylston street, dritto fino al traguardo. Sono gli ultimi metri della maratona di Boston, la più antica e prestigiosa al mondo, con la prima edizione corsa nel 1897, ispirata dal successo delle Olimpiadi ‘moderne’ del 1896. Qui per la prima volta le donne hanno sfidato il tabù sessista che le voleva troppo deboli per correre 42 km: Roberta Gibb, nel 1966, senza iscriversi ufficialmente, nascosta fino alla partenza; Katherine Switzer nel 1967, che si registrò solo con l’iniziale del nome, strattonata lungo il percorso dai direttori di gara e difesa dai suoi compagni. Se quella di New York è la maratona per eccellenza nell’immaginario collettivo, Boston è l’ambizione sportiva coltivata da migliaia di runner: lunedì 17 aprile la 127sima edizione ha visto 30.239 persone sulla start line, 17.272 uomini, 12.940 donne, 27 non binari. Qui la competizione è sentita più che altrove anche tra gli amatori, perché il modo principale per partecipare è ottenere il tempo di qualifica in un’altra maratona, e il numero del pettorale di gara è assegnato rigorosamente in base al tempo di qualifica: più basso è, più si è veloci. Solo una piccola quota viene riservata alle charity benefiche – per le quali bisogna raccogliere una somma minima di 5mila, spesso oltre 8mila dollari – e ai tour operator specializzati, anch’essi in numero limitato (per l’Italia ci sono Ovunque Running, Terramia, Born2run). Quest’anno, dallo Stivale alla conquista di Boston sono partiti 202 italiani. L’altra ‘sfida’ di Boston  è la difficoltà del percorso: diversamente dalla maggior parte delle maratone in giro per il mondo, non c’è praticamente un metro in piano nella strada che da Hopkinton attraversa nel verde le cittadine di  Ashland, Framingham, Natick e Wellesley,  per arrivare alle famigerate ‘Newton hill’, una successione di 4 salite che inizia dopo il 25simo chilometro e termina intorno al 32-33simo con la collina ‘Heartbreak’, spaccacuore, che si chiama così per un episodio avvenuto nel lontano 1936 e raccontato dal cronista del Boston Globe Jerry Nason. Sull’ultima salita l’allora campione uscente, John A. Kelley, superò dopo un lungo inseguimento il rivale Ellison Tarzan Brown, dandogli una pacca sulle spalle. Questo gesto colse di sorpresa Brown, che accelerò seminandolo e conquistando la gara, mentre Kelley, “col cuore spezzato”, arrivò solo quinto. Scavallato il punto più alto della corsa – in cima capeggia uno striscione ‘Congratulazioni per aver conquistato la Heartbreak hill! il cuore di Newton è con te!’ – inizia un lungo tratto comunque ondulato ma meno duro, che arriva fino a Boston, con il famoso cartello ‘Citgo’ a un miglio dall’arrivo, le ultime due curve e la lunga cavalcata su Boylston street.

Persino il cuore del detentore del record del mondo Eliud Kipchoge, arrivato nel New England con l’intento di stravincere, quest’anno è rimasto sulle Newton hills, dove lunedì ha perso contatto con il gruppo di testa: in una delle sue rare sconfitte – la terza  su 20 maratone, 12 le vittorie- ha chiuso solo sesto in due ore 9 minuti e 23 secondi la maratona più lenta della sua carriera. “Vivo per i momenti in cui riesco a sfidare i limiti. Non è mai garantito, non è mai facile. Oggi è stata una giornata dura per me – ha scritto sui suoi social –  Nello sport si vince e si perde e c’è sempre un domani per lanciare una nuova sfida”. Nella conferenza stampa il giorno successivo, un insolitamente irritato Kipchoge ha spiegato di aver avvertito un problema alla gamba sinistra intorno al 30simo chilometro, dopo una prima parte di gara piuttosto veloce. Hanno pesato le condizioni meteorologiche – pioggia e vento – oltre che le caratteristiche del percorso? Lui giura di essersi allenato a dovere sulle alture del suo Kenya. Potrebbe aver pagato la scelta di correre in testa al gruppo, senza riparo dal vento, poiché a Boston, diversamente dalle altre gare, non sono consentiti pacer e lepri che danno il ritmo, correndo davanti agli atleti in gara e semplificandone la gara. Sorridono invece il keniano Evans Chebet e la connazionale Hellen Obiri, che al suo debutto qui ha chiuso in due ore 21 minuti e 38 secondi. Chebet, già indicato da più parti come il nuovo miglior maratoneta al mondo, ha vinto per la seconda volta consecutiva – primo dal 2008 – in 2 ore 5 minuti 54 secondi: nella scuderia di Gianni Demadonna, allenato da Claudio Berardelli, il 34enne keniano ha segnato il miglior tempo sul percorso dal 2011, dopo aver vinto l’anno scorso anche a New York.

Maratona di Boston – edizione 127

Ma Boston non è solo la corsa dei top runner. L’edizione 2023 è stata caratterizzata anche dalle celebrazioni per il decennale dell’attentato: sabato, nel giorno della ricorrenza, si è tenuta una cerimonia alla presenza delle autorità dello Stato, della popolazione e dei parenti delle vittime con la dedica della finish line e la commemorazione ai memoriali posizionati nei punti esatti in cui quel pomeriggio esplosero le bombe che uccisero tre persone e ne ferirono duecento. ‘Boston strong’ è lo slogan che risuona da quel giorno e risuona dovunque, dagli striscioni sulle case lungo il percorso alla caserma dei pompieri di Boylston Street. Il resto è una grande festa dello sport che, più che altrove, più di New York che è famosa per il suo tifo, coinvolge per tutto il weekend l’intera città e arriva al culmine la mattina del terzo lunedì di aprile in cui si celebra il Patriot’s day, che ricorda  l’anniversario della battaglia di Lexington del 1775 che diede il via alla guerra di indipendenza statunitense. Dal Boston Common – il parco cittadino – i runners salgono sui tradizionali scuolabus gialli alla volta di Hopkinton: la distanza che li separa dalla Back Bay è praticamente quella della maratona, perché il percorso è ‘point to point’, cioè dalla partenza all’arrivo in due punti diversi, che è uno dei motivi – l’altro è il dislivello, che nonostante le tante salite è complessivamente negativo – per cui un eventuale record sulla distanza registrato qui non è considerato valido. Dalla partenza all’arrivo non si è mai soli: lungo tutto il percorso, nonostante spesso ci siano freddo, vento, pioggia, il tifo dei residenti non manca mai, tra cartelli, campanelle, striscioni, cibo e acqua offerti ai runner, archi celebrativi di palloncini senza dimenticare lo scream tunnel delle ragazze del Wellesley College, pronte a offrire supporto e anche baci ai corridori, le cui grida di incitamento si sentono a centinaia di metri di distanza. Pochi passi prima di toccare la finish line, sulla leggera discesa di Boylston street, c’è disegnato a terra un unicorno, che è il simbolo della gara. “L’unicorno è una figura mitologica che dovresti inseguire, ma che non raggiungi mai – ha raccontato Jack Fleming, presidente e amministratore delegato della Boston Athletic Association –  ti ispira a continuare a provare, a correre più forte nel caso della maratona, e sebbene possa essere sfuggente, è la ricerca dell’unicorno che ti rende sempre migliore”.

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