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Totò Riina è morto: come cambia Cosa Nostra senza il Capo dei Capi

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Come cambia Cosa Nostra senza Totò Riina? Già orfana di Bernardo Provenzano, chi prenderà le redini ora che i boss più potenti sono morti? Senza di loro la mafia è orfana, ma non sconfitta. E mentre avanza il nome del trapanese Messina Denaro, la mafia siciliana si nutre di soggetti ‘esterni’: professionisti, politici, medici e imprenditori di cui l’organizzazione è ghiotta.

L’associazione mafiosa tradizionale, pur non cambiando la sua struttura a base territoriale e verticistica, vive un processo di emancipazione: è passato e presente che si intrecciano. E’ indebolita, ma fedele alla linea fatta di soprusi e affari. La discesa agli inferi di Provenzano ‘u tratturi’ il 13 luglio 2016 dopo 43 anni di latitanza, e di Riina ‘ù Curtu’ all’indomani del suo ottantasettesimo compleanno, potrebbe far credere che l’avventura sia conclusa: pensarlo è un errore. Con loro nella tomba i contadini di Corleone diventati dittatori di Cosa Nostra portano i segreti di oltre un secolo. E la possibilità di ultimare per sempre il conteggio delle carneficine comandate.

Nulla cambia mai davvero dentro Cosa Nostra: ai padri seguono i ‘figli’, già educati alla vita mafiosa che li attende. Oggi come ieri l’elenco dei padrini e affiliati è lungo. I nomi, però, non sono più quelli celebri di un tempo: la fama di alcuni, temuta in Sicilia, non supera il confine. Non è più tempo dei Frank Costello, il ‘primo ministro della malavita’, morto a New York nel 1973; nè dei Carlo Gambino, legato a Cosa Nostra americana, spirato nel 1976; tantomeno degli Angelo Bruno, ‘il padrino gentile’, deceduto nel 1980. Con l’omicidio del boss Stefano Bontade, ucciso nel 1981 dai Corleonesi, il ‘triumvirato’ Bontate-Gaetano Badalamenti-Luciano Liggio è rotto per sempre.

Era conosciuto come ‘il boss dei due mondi’ Tommaso Buscetta, mafioso e collaboratore di giustizia morto nel 2000 e le cui storiche rivelazioni permisero una ricostruzione giudiziaria della struttura di Casa Nostra; quattro anni più tardi muore Gaetano ‘Tano’ Badalamenti di Cinisi, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Peppino Impastato. Cosa Nostra, parassita del sistema economico e sociale italiano, è ormai subissata dal peso della ‘Ndrangheta, la quale detiene il primato dei traffici di droga.

E’ un flash nel flusso quotidiano di notizie: il processo sulla trattativa Stato-mafia, le rivelazioni di qualche ‘pezzo grosso’, le minacce a magistrati e giornalisti, gli arresti ai clan siciliani, la caccia ai latitanti. Non tutti gli affiliati della ‘mafia 2.0’ parlano un inglese fluente e girano con la ventiquattrore (come erroneamente viene fatto credere), ma qualcosa in Cosa Nostra, condizionata dalle vicende giudiziarie, sta cambiando. Il ‘capitale sociale’ nutre la mafia e di mafia si nutre, in un vicendevole ‘do ut des’: favori e appalti, promesse e commesse. Il pizzo è ancora una salvezza per i detenuti e i loro famigliari, ai quali garantisce un flusso di denaro. E’ ancora radicata nel dna della mafia la conservazione del ‘libro mastro’, come quello trovato dai carabinieri di Palermo a inizio novembre con un elenco dei commercianti del quartiere Borgo Vecchio da taglieggiare: chi versa al clan mafioso della zona la ‘messa a posto’ è protetto, chi sgarra paga.

I mezzi di comunicazione sono sempre più veloci, anche se Provenzano insegna che nulla è più sicuro di un pizzino: consegnato al boss da ‘postini’ di fiducia, manoscritto o dattiloscritto, non lascia traccia apparente. Ne erano convinti i padrini Salvatore e Sandro Lo Piccolo: finiti in manette nel 2007, appuntavano i nomi sia degli estorsori, sia di chi pagava il pizzo. Rimane l’amore ancestrale per la terra e la proprietà, tradotti nel business del mattone e nell’odio per la confisca dei beni. L’organizzazione criminale più potente nel mondo è stata portata in un vicolo cieco, il declino, dalla strategia stragista di Riina che ha insanguinato la Sicilia e l’Italia. Se ne è andato alle 3.37 di venerdì 17 novembre – nel mese dei morti, nel giorno della sfortuna.

Negli anni ha snaturato una mafia che cerca accordi, rendendola da invisibile a visibile, armandola prima di kalashikov e poi con le bombe. Paranoico, pieno di sè, estremo, vanitoso: per decenni Riina ha diretto un esercito che lo ha assecondato, temuto e venerato sino al giorno della cattura. “Io non ho mai fatto queste manachelle”, rispondeva in un’udienza al presidente della Corte d’Assise che gli elencava tutti gli omicidi dei quali era accusato. “Manachelle”, monellerie: questo per Riina sono gli omicidi. Riina assassino folle che ha fatto tremare l’Italia, ordinando mattanze, la Strage di Capaci e di via D’Amelio.

Riina capace di minacciare e comandare anche dietro le sbarre con uno sguardo o un monosillabo. Un ergastolano ebbro di sangue in cui Giulio Andreotti riconosceva il capo di uno Stato ombra con cui era lecito dialogare e se necessario scendere a patti. Un capobranco che ha trascorso almeno metà della vita in latitanza, la cui forza sta dentro il suo essere contadino, inseguito dallo Stato tanto quanto dai suoi nemici di mafia. Un’esistenza da animale braccato che lo ha reso vigile, istruendolo all’astuzia e crudeltà. Chi prenderà oggi il posto del Capo dei Capi?

Qualsiasi sia il prescelto, e ammesso che ci sia, la mafia siciliana non è immobile nel tempo: è finita l’epoca degli attentati nel Continente, la politica stragista dei Corleonesi ha cessato di esistere e dopo il 1993 inizia la stagione di una nuova invisibilità. Una quiete apparente, fatta di metodo, uomini e ricchezza, di convivenza non aggressiva con lo Stato che ha consentito alle élite politiche e amministrative di cancellare la questione mafiosa dall’agenda pubblica. Un abbraccio complice che, sino all’arresto di Bernardo Provenzano nell’aprile 2006, ha permesso a Cosa Nostra di rimettersi in sesto.

Non è escluso che a prendere le redini dell’organizzazione possa essere proprio Matteo Messina Denaro. Conosce l’odore pungente del sangue: lo ha assaporato. Il boss trapanese è il colpevole delle stragi del ’93 al nord, di via Palestro a Milano e di via dei Georgofili a Firenze. Ma tra i due, Riina e Denaro, c’è una distanza geografica incolmabile per la prassi mafiosa: il primo è corleonese, il secondo trapanese. Denaro però continua a scappare, e lo Stato continua a cercare. L’ultima parola sarà la magistratura a scriverla. Perchè Totò Riina è morto ma non è ancora pane per gli storici: la sua attualità non tramonta facilmente. 

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