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Tunisia, 6 anni fa la rivoluzione: ancora rivolte sociali e transizione

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La Tunisia commemora il sesto anniversario della rivoluzione che cacciò il dittatore Ben Ali dopo 23 anni al potere, quella che dalla stampa occidentale è stata incoronata ‘rivoluzione dei gelsomini’ ma i tunisini preferiscono definire ‘rivoluzione della dignità’. Il 14 gennaio del 2011 Zine El-Abidine Ben Ali fuggiva in Arabia Saudita incalzato dalla rivolta scoppiata contro la sua dittatura dopo che un venditore ambulante, Mohamed Bouazizi, il 17 dicembre si era dato fuoco a Sidi Bou Zid a seguito di soprusi da parte della polizia.

A sei anni di distanza la strada appare tutta in salita, con disillusione e un quadro complessivo instabile, ma sempre sul cammino – seppur complesso – della democrazia. Due punti di grande attualità nazionale in questi giorni servono a mettere a fuoco alcune grandi sfide che la Tunisia deve affrontare: in primo luogo da giorni proseguono le proteste in diverse zone, fra cui quelle di Meknassi, Sidi Bou Zid e Ben Guerdane, tutte aree in difficoltà che dallo Stato non hanno ancora ricevuto risposta alle richieste della rivoluzione, cioè quelle sintetizzate dallo slogan del 2011 ‘Lavoro, libertà e dignità’; in secondo luogo, d’altro canto, proprio nel giorno del sesto anniversario della cacciata di Ben Ali, si terrà la quinta serata di testimonianze pubbliche di vittime della dittatura davanti alla Instance vérité et dignité (Ivd), cioè la ‘Commissione verità e dignità’, l’istituto a cui è stato affidato l’accertamento della verità per la giustizia di transizione.

Dunque due grandi sfide che emergono dalle notizie degli ultimi giorni: la risoluzione dei problemi socio-economici già rivendicati sei anni fa e il compimento della transizione democratica, di cui la giustizia di transizione costituisce solo uno degli aspetti. A queste si aggiunge, e in una certa misura si lega, la sfida del terrorismo: in un contesto di instabilità economica, con il governo che non ha avviato le riforme necessarie a dare una svolta dopo il tracollo del settore trainante del turismo a seguito degli attentati terroristici che hanno colpito il Paese nel 2015, la Tunisia è diventata il primo Paese al mondo per numero di cittadini che si sono uniti a gruppi terroristici, che secondo i conteggi non ufficiali oscillano fra 5mila e 6mila persone. Quello che il Paese teme sono i ‘rientrati’, cioè i combattenti che ritornano dopo essersi addestrati all’estero, soprattutto in Libia e in Siria.

La Tunisia è già stata vittima di tre attentati di grandi dimensioni nel 2015: il 18 marzo l’attacco al museo del Bardo a Tunisi, in cui morirono anche quattro turisti italiani; il 26 giugno la sparatoria sulla spiaggia di Sousse; e il 24 novembre l’attacco al bus della Guardia nazionale nel centro della capitale. Più recentemente, era tunisino il giovane Anis Amri responsabile dell’attacco contro il mercatino di Natale di Berlino, poi ucciso dalla polizia a Milano; ed era tunisino anche l’attentatore di Nizza, Mohamed Lahouaiej-Bouhlel. Ma il terrorismo per il Paese non è solo questo: sono anche, e da tempo, i due confini critici con Algeria a ovest e Libia a est. Da anni i jihadisti locali si scontrano con l’esercito sui monti vicino al confine con l’Algeria; e a Ben Guerdane, vicino alla frontiera con la Libia, a marzo del 2016 i jihadisti dell’Isis provarono a sferrare un assalto arrivando proprio dalla vicina Libia, ma furono respinti.

La stessa Ben Guerdane dove giovedì si sono verificati scontri fra polizia e dimostranti che protestavano per chiedere lavoro e in relazione alle nuove misure adottate dalle autorità per controllare il traffico di beni attraverso il valico di Ras Jedir, in un’area di confine in cui il contrabbando costituisce una fonte di sopravvivenza per molte famiglie locali.

Nel Paese le rivolte sociali tornano periodicamente, e così sarà probabilmente finché le istanze continueranno a essere disattese: a Meknassi negli ultimi giorni si protesta per chiedere lavoro e sviluppo, anche perché fra i dimostranti ci sono dei vincitori di un concorso pubblico che però, finora, non sono ancora stati chiamati a lavorare; già l’anno scorso, a gennaio, la Tunisia si era infiammata per le proteste partite dalla regione di Kasserine per rivendicare il diritto al lavoro, dopo che un giovane, Ridha Yahyaoui, era morto cadendo da un palo della luce da cui minacciava di suicidarsi perché il suo nome era stato eliminato dalla lista di nuovi reclutati per un posto nel settore pubblico.

Stamattina si è tenuta la tradizionale manifestazione per ricordare i martiri della rivoluzione nel centro di Tunisi, lungo avenue de Bourguiba. Stasera, invece, gli occhi saranno probabilmente incollati agli schermi per seguire le testimonianze davanti all’Istanza verità e dignità. Già gli scorsi 17 e 18 novembre, e 16 e 17 dicembre, i tunisini avevano rivissuto la storia in diretta tv tramite le testimonianze di parenti dei martiri, ex detenuti nelle carceri della dittatura e in generale vittime di violazioni di diritti umani e crimini commessi nell’arco di tempo compreso fra il 1955 e il 2013, quindi sia sotto Habib Bourguiba che sotto Ben Ali. In un Paese in cui la tortura è ancora praticata, un antidoto contro l’amnesia su 58 anni di storia.

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