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Anche il capo della Trump Organization patteggia con i giudici

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Anche Allen Weisselberg, da lungo tempo direttore finanziario della Trump Organization, ha siglato un accordo con i procuratori federali americani: ha ottenuto l’immunità in cambio di informazioni sull’ex avvocato di Trump, Michael Cohen.

A dare per primo la notizia è stato il Wall Street Journal, citando proprie fonti. Cohen, ex fedelissimo avvocato del presidente americano, si è dichiarato colpevole martedì di otto capi d’imputazione, tra cui frode fiscale, false dichiarazioni bancarie e violazioni legate ai finanziamenti di campagna elettorale. Ha descritto come abbia presentato false fatture alla Trump Organization, per ottenere il rimborso di pagamenti fatti a due donne che dichiaravano di aver avuto relazioni sessuali con il magnate, a quel tempo candidato alle presidenziali 2016. Le due donne, non citate nelle carte, sono l’attrice porno Stephanie Clifford, alias Stormy Daniels, e la ex modella di Playboy, Karen McDougal.

Cohen ha anche affermato che a spingerlo a violare la legge sui finanziamenti di campagna elettorale con questi pagamenti sia stato lo stesso Trump, che è stato quindi coinvolto direttamente. Appare però difficile che queste rivelazioni possano portare all’impeachment, scenario che lo stesso Trump ha evocato in tv dicendo di non “capire come si possa mettere in stato d’accusa qualcuno che ha fatto un ottimo lavoro”, e che se tuttavia accadesse le conseguenze sarebbero il “crollo dei mercati” e l’impoverimento generale degli americani.

Dopo il presidente, Weisselberg è presumibilmente la persona più informata in assoluto sulle attività e le decisioni della Trump Organization. Vi ha lavorato per decenni e dopo l’elezione alla Casa Bianca, Trump ha lasciato tutto nelle mani sue e dei figli.

Quello con Weisselberg non è il primo accordo siglato dai procuratori federali con esponenti molto vicini a Trump, nelle indagini collegate al Russiagate guidate dal procuratore speciale Robert Mueller. Solo ieri l’immunità è stata concessa anche a David Pecker, ceo del gruppo editoriale American Media Inc che pubblica il National Enquirer, in cambio di informazioni su Cohen e sui pagamenti. In udienza, Cohen aveva detto: “Io e il ceo di una società media, su richiesta di un candidato, abbiamo lavorato insieme” per soffocare delle storie.

Associated Press ha rivelato inoltre che il settimanale National Enquirer aveva una cassaforte contenente materiale potenzialmente dannoso per Trump, mai pubblicato. Tra le carte, anche documenti sui pagamenti alle donne.

L’altra – la quarta – scure piombata negli ultimi giorni sulla Casa Bianca è la condanna dell’ex direttore della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort, per otto capi d’accusa. La dichiarazione di colpevolezza di Manafort, che si è consegnato all’Fbi e va probabilmente verso una pesante condanna al carcere, rientra nel primo caso portato a processo da Mueller.

Trump continua a sminuire la situazione parlando della già tante volte citata “caccia alle streghe”, ma la sua inquietudine è evidente. Anche la Casa Bianca ha tenuto a mostrare freddezza: “Il presidente non è affatto preoccupato, sa di non aver fatto nulla di male e che non c’è stata collusione” con Mosca, ha dichiarato la portavoce Sarah Sanders. Collusione su cui indaga lo staff di Mueller, così come su eventuali interferenze di Mosca nelle presidenziali.

E su questo punto prosegue lo scontro del presidente con il ministro della Giustizia, Jeff Sessions. Dopo che Trump a inizio agosto gli chiese di metter fine all’indagine sul Russiagate, Sessions è stato tranchant: nessuna “valutazione politica” influenzerà il suo ministero. Trump ha replicato sul suo social network preferito, Twitter, bacchettando sarcasticamente Sessions e invitandolo a “guardare la corruzione sull’altro lato”, cioé quello Democratici.

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