Un anno dopo l’esodo dei musulmani Rohingya in Bangladesh, in fuga dalle persecuzioni in Birmania, la situazione della minoranza resta difficile e incerta: i profughi vivono in immensi campi, i finanziamenti loro dedicati si riducono e l’accordo sul rimpatrio è a un punto morto. Era il 25 agosto 2017 quando posti di frontiera furono attaccati da ribelli Rohingya, cui l’esercito birmano rispose con una repressione senza precedenti. L’Onu parlò di “pulizia etnica”: furono 706mila le persone che fuggirono in Bangladesh dallo Stato di Rakhine, che sommate alle 200mila già fuggite dalle precedenti ondate di violenza hanno fatto sì che oggi siano oltre 919mila i Rohingya che vivono nel distretto di Cox’s Bazar, secondo Medici Senza Frontiere.
La leader birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, molto criticata per la gestione della crisi tanto che sette onoreficenze le sono state ritirate, ha respinto giorni fa ogni responsabilità, dopo che il suo Paese si era dichiarato pronto al ritorno e a gennaio ha firmato un accordo con Dacca. Otto mesi più tardi, però, l’intesa è a un punto morto e i Rohingya rimpatriati sono stati meno di 200. A livello internazionale, da varie parti viene fatta pressione su Naypyidaw. La prossima settimana si riunirà il Consiglio di sicurezza Onu, gli Usa ad agosto hanno annunciato sanzioni contro alcuni comandanti e unità militari, e le ong stanno raccogliendo testimonanze nei campi per spingere la Corte penale internazionale ad agire contro l’esercito birmano.
Msf in questi 12 mesi ha effettuato oltre 656.200 visite mediche in 19 strutture, tra ospedali, ambulatori e cliniche mobili. All’inizio, più della metà dei pazienti era curata per lesioni legate alla violenza, ma presto sono emersi altri problemi di salute causati dal sovraffollamento e dalle scarse condizioni igieniche nei campi in Bangladesh. Gli Stati ospitanti nella regione negano ai Rohingya qualsiasi status legale formale, nonostante siano a tutti gli effetti rifugiati e siano stati resi apolidi dalla Birmania. “Ci troviamo in una situazione in cui è perfino difficile definire i Rohingya rifugiati”, dichiara Francesca Zuccaro, capomissione di MSF in Bangladesh, “rifiutando di riconoscere i loro diritti come rifugiati o negando loro qualsiasi altro status legale, i governi li costringono a vivere in uno stato di estrema vulnerabilità”.
I donatori e i governi in grado di esercitare un’influenza sul governo birmano non sono riusciti a porre fine alle persecuzioni. E la risposta umanitaria delle Nazioni unite (che avevano chiesto fondi per un miliardo di dollari ma ne hanno raccolti un terzo) in Bangladesh è, ad oggi, finanziata solo per il 31,7%. All’interno di questa somma, i finanziamenti per l’assistenza sanitaria si fermano al 16,9%, lasciando significative nella fornitura di servizi medici vitali, sottolinea MSF. Con il pretesto che i Rohingya torneranno presto in Myanmar, la risposta umanitaria è stata ostacolata nella fornitura di aiuti a lungo termine. Le condizioni di vita nei campi sono di gran lunga inferiori agli standard umanitari internazionali: i rifugiati vivono ancora negli stessi rifugi temporanei di plastica e bambù che sono stati costruiti al loro arrivo: “In una zona in cui cicloni e monsoni sono comuni, non esistono praticamente rifugi solidi e stabili”, afferma Pavlo Kolovosd, responsabile dei progetti di MSF in Bangladesh.
Inoltre, i Rohingya restano confinati con la forza nei campi e la maggior parte ha scarso accesso all’acqua pulita, alle latrine, all’istruzione, alle opportunità di lavoro e all’assistenza sanitaria. “Queste restrizioni non solo limitano la qualità e l’ampiezza degli aiuti, ma costringono anche i Rohingya a dipendere interamente dagli aiuti umanitari. Ciò li priva di qualsiasi possibilità di costruire un futuro dignitoso per loro stessi e rende ogni giorno una non necessaria lotta per la sopravvivenza”, aggiunge Kolovos di MSF, che chiede soluzioni durevoli.