La strage di via d’Amelio che il 19 luglio 1992 costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alla sua scorta (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina) fu opera della mafia, una “vendetta” di Cosa Nostra, ma con “plurime, persistenti ‘zone d’ombra’” che ancora incidono sulla scoperta della verità. È quanto scrivono i giudici della V sezione Penale della Corte di Cassazione nelle 121 pagine delle motivazioni della sentenza con cui il 5 ottobre sono state confermate le condanne all’ergastolo per i boss Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e per i falsi pentiti Calogero Pulci e Francesco Andriotta, condannati rispettivamente a 10 anni e a 9 anni e 6 mesi per calunnia.
La morte del giudice, precisano gli ermellini, è dunque da inserire “nell’ambito di una più articolata ‘strategia stragista’ unitaria” che rispondeva a diverse obiettivi di Cosa Nostra, a partire dalla “vendetta” ma non solo. Con quella bomba, si voleva evitare che “Borsellino divenisse capo della Procura Antimafia”, oltre a destabilizzare e a mettere “in ginocchio lo Stato”.
Non solo di mafia però si trattò. Le ‘zone d’ombra’ sono infatti ancora molte, a partire dalla sparizione della nota agenda rossa del giudice, “smaterializzata dal luogo infuocato della strage dalla borsa del magistrato” e “ricomparsa dopo alcuni mesi nelle mani del dott. La Barbera che la riconsegnava alla moglie”. E poi quei “soggetti ‘in giacca’” nonostante il caldo, arrivati subito dopo l’esplosione e che da subito furono indicati come appartenenti ai servizi segreti. A ciò si aggiungono “abnormi inquinamenti delle prove che hanno condotto a plurime condanne di innocenti” con la figura centrale di Vincenzo Scarantino, mentre le parole del pentito Gaspare Spatuzza sono da ritenersi la “pietra angolare”. Se dunque sono stati riconosciuti “altri soggetti o gruppi di potere co-interessati all’eliminazione” di Paolo Borsellino”, la strage fu ordita da Cosa Nostra nell’ambito della stragegia stragista ideata in risposta al Maxiprocesso, la stessa strategia promossa da Riina per cui si doveva “‘fare la guerra per poi fare la pace’” con lo Stato.