L’ex operaio meltameccanico che dal 1° gennaio 2003 al 1° gennaio 2011 è stato il presidente della Repubblica federale del Brasile, (forse) andrà in prigione. Ma è fuori discussione che la parabola di Luiz Inàcio da Silva, soprannominato Lula, cioè calamaro, sia probabilmente giunta alla sua fase terminale, malgrado i movimenti di piazza possano ritardare ciò che ha stabilito il Tribunale Supremo Federale. Una brutta storia di corruzione e riciclaggio, lui che per anni era stato il testimonial della trasparenza politica e dell’onestà: per milioni di brasiliani è la fine di un sogno.
Il pernambucano di Caetes, 73 anni, non hai trascorso una vita facile: quarta elementare, lustrascarpe a 12 anni, operaio a 14 in una fabbrica di rame, poi il diploma di scuola superiore e a 19 il tuffo nel mondo del sindacato, spinto verso la sinistra estrema dalla dittatura che si concluse nel 1984 con la presidenza di José Sarney, esponente del PdB, il Partito democratico brasiliano. Piccolo e rotondo – una passione viscerale per il futebol, il tifo per il Corinthians, il titolo di ambasciatore contro la fame del mondo consegnato all’ex milanista Kakà – è indiscutibile che Lula abbia spinto il Paese oltre le colonne d’Ercole di una crisi economica e sociale che aveva assunto connotazioni preoccupanti, ereditate dai predecessori, da Fernando Collor de Mello fino all’altro Fernando, Henrique Cardoso.
I brasiliani lo hanno sempre visto come uno di loro, uno del popolo, a cominciare dai gusti alimentari tipici di chi è nato negli stati poveri del Nord: feijoada, mandioca e birra. A Lula sono sempre piaciute le battaglie: radicali, dure e, ovviamente, pure. Nel 1978, alla presidenza del sindacato dei lavoratori dell’acciaio, a San Bernardo do Campo, nello stato di San Paolo dove c’era la massima concentrazione di produttori di autoveicoli, scese in campo con una serie di scioperi massicci che lo portò fino all’incarcerazione. Il ‘salto’ lo fece due anni dopo, quando fondò con Chico Mendes, il PT, il Partito dos Trabalhadores. Di (e da) lì comincio la scalata verticale che lo portò al Palacio del Planalto (al quarto tentativo), battendo al ballottaggio José Serra, e poi a fare vita sociale tra Castro, Putin e gli altri leader dell’America latina. C’è una foto che lo immortala con il venzuelano Chavez e l’argentino Kirchner, nel gennaio 2006: un intreccio di mani di idee (diverse) e soprattutto di interessi, giacca e cravatta al posto dell’abbigliamento una volta informale, jeans e maglietta. Radical chic? Ecco, sì. Più che altro una metamorfosi coatta.
La ‘sponsorizzazione’ di Dilma Rousseff alla presidenza – avventura finita con l’impeachment – non ha aiutato Lula a rimanere a galla, malgrado ci sia chi sostenga che anche così, da condannato e forse da carcerato, potrebbe portare avanti la campagna elettorale. A meno che il Tribunale Superiore non cali la Clean sheet act, la legge che vieta di candidarsi ai condannati in secondo grado. Fino al 15 agosto tutto sarà possibile per il ‘calamaro’ e i suoi tentacoli, perché in questo Brasile tutto è davvero possibile.