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Caso Cucchi, carabiniere accusa colleghi: “Dopo botte scaricarono su penitenziaria”

Foto AP-LaPresse - Tutti i diritti riservati

“È successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato”. Con queste parole, e le mani sulla fronte, il maresciallo Roberto Mandolini si confidò nell’ottobre del 2009 con l’appuntato scelto dei carabinieri, Riccardo Casamassima, diventato poi il teste chiave dell’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi. I due colleghi scambiarono poche parole prima che Mandolini si precipitasse a parlare, nella stazione di Tor Vergata, con il comandante Enrico Mastronardi, suo superiore.

I ragazzi a cui faceva riferimento Mandolini erano altri carabinieri, e la vittima delle botte Cucchi, che arrestato per spaccio la sera del 15 ottobre di quell’anno, sarebbe morto il 22 nell’ospedale Sandro Pertini di Roma.

Casamassima è stato sentito stamani nell’aula della prima Corte d’Assise di Roma, testimone al processo che vede alla sbarra cinque carabinieri tra i quali lo stesso Mandolini. “Io non assistetti al colloquio tra Mandolini e Mastronardi, ma seppi cosa si dissero da quella che è poi diventata la mia compagna, Maria Rosati, che assistette al colloquio perché era autista di Mastronardi – ha spiegato Casamassima -. Avevano deciso, e stavano cercando, di scaricare le responsabilità dei carabinieri sulla polizia penitenziaria. Lei capì il nome Cucchi ma all’epoca non era una vicenda nota perché non era morto“.

Casamassima ha raccontato che qualche giorno dopo la morte di Stefano Cucchi incontrò il figlio di Mastronardi, Sabatino, “con il quale ebbi uno scambio confidenziale: anche lui si portò la mano sulla fronte e parlando della morte di Cucchi, disse che lo aveva visto la sera dell’arresto, nella caserma di Tor Sapienza, dopo il pestaggio, e non aveva mai visto una persona così messa male”.

Alla domanda del pm Giovanni Musarò sul perché abbia deciso di parlare solo dopo quattro anni e mezzo dall’omicidio Casamassima risponde: “All’inizio la vicenda Cucchi non mi aveva visto coinvolto in prima persona, ma troppe cose non mi erano piaciute fatte dai miei superiori, come l’abitudine di falsificare i verbali. Ho deciso di rendere testimonianza, perché mi vergognavo di ciò che sentivo è vedevo. Ma temevo ritorsioni che poi, puntualmente, si sono verificate”.

“Quando è uscito il mio nome sui giornali, i superiori hanno cominciato ad avviare procedimenti disciplinari nei miei confronti, tutti pretestuosi – ha aggiunto-. Con Mandolini mi sono incrociato una mattina nell’ottobre del 2016: ci siamo guardati male, poi io gli ho detto di andare a parlare col pm per dire quello che sapeva perché le indagini della procura stavano andando avanti. Lui mi ha risposto dicendomi che il pm ce l’aveva a morte con lui, e la conversazione si è chiusa lì”.

Sono cinque i carabinieri coinvolti nel processo sulla morte del geometra romano in corso davanti alla prima Corte d’Assise del tribunale di Roma: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto di Cucchi e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l’arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso.
 

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