Prima di tutto Stefano Cucchi era un giovane uomo. Un ragazzo fragile con una storia difficile. Poi è diventato un volto. Una maschera viola di ematomi, la bocca aperta, gli occhi pesti, gonfi nella fissità della morte. Una fotografia che racconta un abuso, i depistaggi e le omertà che si sono coagulati intorno alla fine di Stefano, fermato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 per possesso di droga e morto una settimana dopo all’ospedale “Pertini” di Roma.
Carlo Bonini, inviato speciale di Repubblica, ora ricostruisce in un libro il calvario del 31enne romano e la complessa vicenda giudiziaria: in sette anni ci sono stati quattro processi, con tutti gli imputati assolti. “Il corpo del reato” (Feltrinelli) si basa sulla conoscenza personale e diretta dell’autore, sulla lettura di migliaia di pagine di atti processuali e lunghe interviste con le persone coinvolte. E’ un’inchiesta civile che parte dal cadavere di Stefano Cucchi, “il testimone più importante, quello che non mente”. “Per dolo, per colpa, per sciatteria o comodità – ci spiega Bonini – nessuno si è accorto che la frattura della terza vertebra lombare di Stefano, la famigerata L3, era un dato medico-legale chiaro, presente già nella fase dell’indagine preliminare nel 2009. Un dato che avrebbe creato un nesso causale diretto tra il pestaggio e la sua morte, dopo una rapidissima agonia. E questo tassello, per ragioni che restano misteriose, è stato manomesso; la frattura venne infatti tagliata via durante l’autopsia, accidentalmente o volutamente. Intorno a questo equivoco provocato, la verità è così diventata un’opinione, mentre è incontrovertibile che sul corpo dì Stefano ci siano gli esiti di lesioni dovute a traumi non autoinflitti e non causati da una caduta dalle scale”.
“Se si andrà a processo contro i cinque carabinieri indagati – continua Bonini – proprio questa evidenza consentirà di inasprire il capo di imputazione da lesioni gravi a omicidio preterintenzionale, allontanando la prescrizione e dunque la beffa finale. Sarà poi interessante capire se nella catena delle responsabilità, al di là degli autori materiali del pestaggio, qualcuno abbia consapevolmente contribuito o meno alla copertura di quanto successo”.
Lo scorso giugno, al processo d’appello bis contro i medici del “Pertini”, il procuratore generale Eugenio Rubolino paragonò la fine di Stefano Cucchi a quella di Giulio Regeni, “ucciso da servitori dello Stato in camice bianco”. Due vicende che si intrecciano anche ne “Il corpo del reato” attraverso Vittorio Fineschi, il medico legale che ha eseguito entrambe le autopsie e che ha un ruolo centrale nella lotta della famiglia Cucchi per ottenere giustizia. “Ovviamente sono due casi diversi, uno consumato sotto un regime autoritario, l’altro in una Repubblica democratica. Ma – sottolinea Carlo Bonini – c’è una ricorrenza nel modo in cui gli apparati difendono sé stessi quando devono rispondere della violazione di un diritto umano. Giustamente l’Italia chiede conto all’Egitto delle torture subite da Regeni, ma è paradossale che il nostro Paese sia l’unico in Occidente che in 33 anni non abbia ancora approvato una legge sulla tortura. E questo per colpa del peso silenzioso che fa erroneamente ritenere che uno Stato capace di punire i servitori infedeli, sia uno Stato che automaticamente autorizza a considerare deboli i proprio apparati e le proprie forze dell’ordine”.