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Cucchi, madre in lacrime in aula: “Dal cadavere non l’ho riconosciuto”

Foto AP-LaPresse - Tutti i diritti riservati

“L’ho partorito, l’ho cresciuto, l’ho portato per mano, quando l’ho visto cadavere non l’ho riconosciuto“. In lacrime Rita Calore ha ricordato il figlio, Stefano Cucchi, nel processo che vede imputati cinque carabinieri per la sua morte. “Era uno scheletro, tutto nero – ha aggiunto la donna, visibilmente commossa – aveva una mascella rotta, un occhio fuori dall’orbita. C’erano poliziotti che giravano dappertutto e uno di loro scuoteva la testa”. La donna ha raccontato in aula quel momento drammatico. E quando il marito vide il figlio, il giorno dopo l’arresto: “Mi disse che era tutto gonfio e rosso, nero sotto gli occhi. La sera prima quando lo aveva visto non era così. Disse che era una cosa davvero inaccettabile”.

Sono cinque i carabinieri coinvolti nel processo sulla morte del geometra romano che si è svolto davanti alla prima Corte d’Assise del tribunale di Roma: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto di Cucchi e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l’arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. Stefano Cucchi venne arrestato 15 ottobre del 2009 in via Lemonia, a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Morì il 22 ottobre del 2009 dopo un ricovero di cinque giorni all’ospedale Sandro Pertini.

Secondo l’accusa, il giovane fu colpito la notte del suo arresto, dai tre carabinieri imputati con “schiaffi, pugni e calci”. Il pestaggio, per la procura di Roma, causò tra l’altro “una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale” provocando sul giovane “lesioni personali che sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni e in parte con esiti permanenti, ma che nel caso in specie, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi presso la struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini, ne determinavano la morte”, il 22 ottobre del 2009. Nel procedimento sono parte civile, oltre ai familiari del giovane, il Comune di Roma, Cittadinanzattiva e gli agenti della penitenziaria accusati nella prima inchiesta sulla morte del giovane.

Non posso dimenticare le urla disperate dei miei genitori quando ebbero la possibilità di vedere il cadavere del figlio. Piangevano, imprecavano, io non avrei voluto vederlo, preferivo ricordarlo con il suo sorriso. Ma poi ho ceduto e ho visto una scena pietosa: un corpo irriconoscibile, non sembrava neppure Stefano – è il racconto di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano – Aveva il volto tumefatto, un occhio fuori dall’orbita, la mascella rotta, l’espressione del volto segnato da sofferenza e solitudine nella quale era morto. Ero pietrificata, non era possibile che un essere umano fosse ridotto in quelle condizioni”. E ancora. “La nostra era una famiglia fantastica e meravigliosa, sempre unita, nonostante le tante batoste dovute ai problemi di tossicodipendenza di Stefano – ha aggiunto Ilaria durante la testimonianza nel processo che vede imputati 5 carabinieri – Non c’era Natale o compleanno che non festeggiassimo sempre assieme. Stefano era come me, non tollerava le ingiustizie. Spesso litigavamo anche pesantemente, ma da parte sua non ricordo mai un gesto di violenza fisica. Aveva un bel caratterino. La sera prima dell’arresto era andato in palestra. Stava bene, era magro come me, ma non aveva alcun problema di salute. Fino all’ultimo istante della sua vita, ha combattuto e lottato per essere aiutato”. 

 

 

 

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