“Non rido spesso, ma a Roma, con questo sole, è impossibile restare seri”, esordisce così Sir Ian McKellen, arrivato nella Capitale per la Festa del Cinema. E regala una risata profonda, di quelle che il grande pubblico ha imparato a conoscere nella trilogia del Signore degli Anelli, dove interpretava lo stregone Gandalf. Il ruolo per cui probabilmente resterà nella storia del cinema, ma solo uno dei centinaia che ha interpretato.
Alla kermesse incontra il pubblico in uno degli Incontri Ravvicinati e presenta il documentario sulla sua vita McKellen: Playing The Part. Una vita piena, divisa tra attivismo, teatro shakespeariano e cinema che il giovane regista Joe Stephenson ha trovato “di ispirazione e degna di essere condivisa”. “Pensavo di essere la persona meno interessante del mondo, – ha dichiarato invece McKellen alla stampa – ma ho accettato perché Stephenson mi sembrava un bravo filmmaker. È venuto a casa mia e abbiamo parlato per due giorni, io ero molto imbarazzato e penso che nel film si percepisca”.
La sua carriera iniziò a 13 anni quando interpretò Malvolio ne La dodicesima notte di William Shakespeare: da quel momento non lasciò mai il teatro. Al cinema invece arrivò molto più tardi, una prima esperienza la fece a trent’anni, ma iniziò attivamente a più di quaranta. Non che prima non avesse provato. “Feci diversi provini, – ricorda – tra cui anche uno a Roma per Barbarella con Jane Fonda nel 1967, ma non mi presero. E fu un bene: mi dedicai completamente a formare una carriera solida, che era quello che mi interessava, e quando arrivai al cinema ero pronto. Probabilmente, a vent’anni, quando feci quei provini, non lo ero e se mi avessero preso, oggi non sarei qui”. Una carriera solida che gli ha permesso di vivere i panni dei personaggi più vari: da Re Lear a l’X-Men Magneto, da Riccardo III a Sherlock Holmes, passando persino per un ruolo in Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, che ricorda con affetto (“Non era veramente un testo italiano, era in napoletano, no?”).
“Amo fare cose diverse – ammette – e non mi piace replicare ciò che già ho fatto. Prendiamo l’esempio di Gandalf: sono stato uno sregone, perché dovrei interpretarne un altro?”. “Ciò che ho imparato negli anni – continua il settantottenne – è che si può interpretare veramente qualsiasi personaggio perché dentro di noi c’è tutto. Ognuno di noi può essere saggio, gentile, stupido, criminale, ecco perché per me non è strano fingermi King Lear. Rappresentare tutti questi aspetti è possibile perché sono già dentro di noi. Recitare, in fondo, è rivelare. È questa l’essenza che non cambia dal teatro al cinema”.
Ma il documentario mostra anche un altro aspetto di Ian McKellen: il suo attivismo e la sua battaglia contro le discriminazioni, iniziata nel 1988, quando all’età di 49 anni, decise di fare coming out. “Credo che il mondo sia molto migliorato. Per alcune persone – dice l’attore – è ancora difficile rivelare di essere omosessuale, c’è ancora paura. Un insegnante pensa che i suoi studenti non lo rispetteranno più, un politico che non sarà più votato, c’è chi non vuole avere problemi sul lavoro, chi non vuole far dispiacere i propri genitori. Ma non è vero che le persone non ti accettano: vedo ragazzi di 14 anni vivere apertamente la propria omosessualità, a me ci sono voluti 49 anni per farlo. E quando accade è bellissimo, la vita migliora perché non devi più nasconderti o dire bugie. La mia almeno è migliorata molto, persino la mia recitazione ne ha risentito positivamente”.
E quando gli chiedono se abbia mai pensato di adottare un bambino risponde secco: “Assolutamente no. E non solo perché quando ero giovane fare sesso con un altro uomo era illegale. Certo, non si poteva proprio prendere in considerazione come opzione, non sarebbe stato possibile, ma la verità è che io ho sempre pensato che la parte più bella dell’essere gay fosse il non poter procreare, Io sono sempre stato molto egoista e benché mi sia sempre trovato bene con le persone giovani non ho mai avuto il desiderio di prendermene cura. Lavoro con moltissimi ragazzi e ho tanti fan tra i bambini, mi trovo bene in loro compagnia, ma non vorrei mai dover pensare alla loro educazione”.