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Governo Gentiloni oggi alla prova del Senato. Ma senza l’appoggio di Verdini

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I numeri in Senato ci sono e, almeno per quanto riguarda oggi con il pienone dei grandi eventi, com’è la fiducia sul programma di un nuovo governo, non ci dovrebbero essere grosse sorprese. L’addio di Denis Verdini alla maggioranza continua a tenere banco in Transatlantico, con i cronisti che, taccuino alla mano, ragionano sulle possibili aggiunte o defezioni, per scovare quale sia veramente la forbice tra la soglia minima dei 161 e quanto invece il nuovo governo Gentiloni potrebbe portare a casa. In realtà il problema, fanno notare alcuni parlamentari, non è il voto di oggi, ma quelli che ci saranno sui prossimi provvedimenti all’attenzione dell’esecutivo fresco di nomina.

Dal 2013, quando il Partito democratico vinse le elezioni, il Senato è stato il tallone d’Achille del governo, una maggioranza risicata e appesa a un filo. Sui 320 senatori infatti il governo può contare su 112 Dem (con il presidente Pietro Grasso che non vota), i 28 di Ncd, i 18 del gruppo per le Autonomie (senza Mario Monti che ha già annunciato che voterà no alla fiducia) e quasi la metà del Misto, dove ci sono i fedeli Sandro Bondi e Manuela Repetti. In questo gruppo devono sciogliere la riserva ancora i tre di Fare, gruppo dei tosiani, che non hanno ancora deciso. In tutto al netto dell’assenza dei 18 di Ala la maggioranza conterebbe circa 172 voti. Senza defezioni dovute a malattie, contrattempi, o più semplicemente assenze dei ministri. Nella squadra di Paolo Gentiloni infatti si contano 4 senatori: Roberta Pinotti, Anna Fonocchiaro, Valeria Fedeli e Marco Minniti. Il fronte Ala fa notare che fino a ieri i verdiniani hanno garantito un cuscinetto su cui la maggioranza poteva poggiarsi quando la minoranza Pd faceva i capricci, come appunto la legge sulle unioni civili. Ora, spiegano sempre gli ex Forza Italia, “il governo sarà ostaggio del volere della minoranza”. Insomma il partito di Verdini voleva una legittimazione politica per quello che è stato fatto dentro e fuori il Parlamento per sostenere la maggioranza, per ultimo i banchetti sparsi per l’Italia a sostegno del Sì al referendum. Esattamente come ha fatto, ma avendo in cambio poltrone e anche di pregio, Ap di Angelino Alfano. “C’è meraviglia per questa scelta politica che non farà dormire sonni tranquilli al governo soprattutto al Senato” assicura infatti Ignazio Abrignani, deputato di Ala.

Ma cosa è successo poche ore prima dell’ufficializzazione della lista dei ministri al Quirinale? Fonti all’interno del partito di Verdini assicurano che da parte loro non vi era stata alcuna proposta, né su nomi né su ministeri, ma semplicemente una richiesta di legittimazione all’interno del governo di una forza politica che per l’esecutivo precedente si era spesa molto. Il presidente della Repubblica, spiegano, aveva registrato la posizione, mentre il premier Gentiloni si era mostrato “possibilista”. La situazione è invece precipitata poche ore prima della salita al Colle di Gentiloni per sciogliere la riserva. Prima l’offerta da parte dell’esecutivo nascente di 3 o 4 sottosegretari, “rifiutata immediatamente” assicurato da Ala, poi il silenzio a cui ha fatto seguito la certezza che la partita sui ministeri si era chiusa, e i verdiniani ne erano rimasti fuori. Ecco allora il comunicato al vetriolo lanciato alle 18, mentre Mattarella e Gentiloni sono a colloquio,  con una forte critica al governo entrante, e l’annuncio del diniego alla fiducia. In merito a un patto tra Verdini e Renzi la risposta è secca: “Se il segretario avesse alzato il telefono avremmo ottenuto qualcosa. Ma non lo ha fatto”.

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