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La ‘voglia di disgusto’ che rischia di avvicinarci a Orban e Dudan

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Adesso che la ‘voglia di disgusto’ ha spaccato l’Italia in due, tra Movimento 5 Stelle e coalizione di centrodestra, con il brusco ridimensionamento del Partito Democratico, adesso, insomma, che esiste di fatto un nuovo bipolarismo, comincia il difficile. Governare l’Italia non sarà semplice, come individuare una via d’uscita, come gestire i rigurgiti populisti, come tenere a bada gli euroscettici, come consegnare alla Ue (che ci scruta sospettosa e/o preoccupata) un’immagine rassicurante di noi.

Il pericolo che ci sia uno scollamento dalla Germania di Merkel e dalla Francia di Macron e un avvicinamento alla Polonia di Duda e all’Ungheria di Orbàn non è più un puro esercizio di fantapolitica. Qualcosa cambierebbe, in effetti. Per il momento, il presidente Sergio Mattarella non può che osservare e vigilare, di qui al 23 marzo saranno le forze politiche a dover trovare un punto d’incontro, a imbastire alleanze, ad agire per la scelta del presidente di Camera e Senato per rimettere in moto il Parlamento: poi cominceranno le consultazioni. Questo è l’iter istituzionale, ma intanto c’è il resto, che l’inquilino del Colle filtra in rigoroso silenzio. Alcune evidenze d’altronde sono sotto gli occhi di tutti: la ‘questione meridionale’ che ha consentito al Movimento 5 Stelle di stravincere, la polverizzazione del Partito Democratico con Matteo Renzi al passo d’addio e con la necessità di ricominciare da un congresso, il sorpasso della Lega su Forza Italia all’interno del centrodestra, la caduta rovinosa e rumorosa di alcuni insospettabili padri della seconda Repubblica. Sono spallate, sono cazzotti in pieno viso: in fondo, tutti sapevano che non sarebbero state elezioni banali, quelle del 4 marzo.

La ricerca di alleanze ‘pulite’ va oltre il rischio dell’incucio, rigettato da tutti e a gran voce, persino da Renzi come se per il Pd comandasse ancora lui. I ‘winners’ Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno scelto il profilo istituzionale come timone dei loro interventi ‘a freddo’, quasi che dopo la battaglia di bassa levatura della campagna elettorale il buonsenso sia sceso sulla testa degli uomini a cui, immaginiamo, potrebbe essere affidato il mandato di formare il nuovo Governo. Chi lo farà per primo? Il capo del partito o della coalizione che ha raccolto più voti? La risposta potrebbe spostare di molto la valutazione del rapporto di forze; in assoluto, però, conta trovare un coagulante per arrivare al 51%. Di Maio si è detto aperto al confronto con tutte le forze politiche che condividono il loro programma, Salvini ha ribadito che ha “il diritto e il dovere di governare”, marginalizzando il ruolo di Silvio Berlusconi, chiuso a doppia mandata nella residenza di Arcore. La conta dei seggi ha un poco riequilibrato la partita interna al centrodestra: liofilizzando, non un sorpassone ma un sorpassino. Però il distacco pesa. E forse peserà.
 

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