Il consiglio presidenziali della Libia ha dichiarato lo stato di emergenza a Tripoli e nei dintorni, dopo che da giorni sono in corso violenti scontri. L’annuncio è stato dato dal servizio comunicazioni del Governo di accordo nazionale (Gna) del premier Fayez al-Sarraj, riconosciuto a livello internazionale. Poche ore prima, il segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, aveva chiesto la fine delle violenze in conformità con l’accordo di cessate il fuoco negoziato dall’organizzazione.
Tripoli è al centro di una dura lotta di potere dalla caduta nel 2011 del dittatore Muammar Gheddafi. Venerdì almeno 15 razzi erano piovuti sulla città, anche sull’unico aeroporto funzionante di Mitiga, dove tutti i voli erano stati dirottati su Misurata. E, secondo il ministero della Salute libico, almeno 39 persone sono state uccise e circa 100 ferite in cinque giorni di scontri tra milizie rivali, scoppiati lunedì nei sobborghi a sud di Tripoli.
Sabato razzi sono caduti su varie zone della città, uno anche su un hotel frequentato da stranieri vicino all’ambasciata italiana. Nelle stesse ore la Settima brigata di Tarhuna, che formalmente risponde al ministero della Difesa del governo guidato da Sarraj, ma si è scontrata con i gruppi ad esso fedeli, ha respinto la tregua e promesso che “combatterà” sino a quando non avrà “ripulito” la città “dalle milizie”.
Guterres ha “condannato la continua escalation di violenze nella capitale della Libia e, in particolare, l’uso da parte di gruppi armati di bombardamenti indiscriminati che portano alla morte e al ferimento di civili, compresi bambini”, si legge in una nota. Ha anche “invitato tutte le parti a cessare immediatamente le ostilità e ad attenersi all’accordo di cessate il fuoco mediato dalle Nazioni unite e dai Comitati di riconciliazione”.
In una dichiarazione congiunta, Italia, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti avevano condannato la situazione, avvertendo che una escalation minerebbe il processo politico e che “coloro che mettono a rischio la sicurezza a Tripoli o altrove in Libia saranno ritenuti responsabili”. Preoccupazione anche dall’ong Medici Senza Frontiere, che scrive su Twitter: Siamo “altamente preoccupati per i cittadini libici nelle aree residenziali e per i rifugiati e migranti intrappolati, le cui sofferenze sono state aggravate dalle politiche dell’Unione europea. La Libia non è un Paese sicuro”.