La “tregua fragile” del Pd (cit. Cesare Damiano) sembra destinata a infrangersi prima dell’assemblea nazionale che non sarà il 12 e 13 maggio come paventato da Matteo Orfini quando il rischio era la spaccatura in direzione.
In questo percorso, già di per sé in salita, si inseriscono anche le scelte che i Dem dovranno fare dopo le consultazioni-ter dal presidente della Repubblica, lunedì. E sebbene tutti a livello nazionale, renziani e ‘non’, si intestino la vittoria dell’unità ritrovata, è dai territori che arriva una nuova sfida al Pd e, in particolare a Matteo Renzi.
Se in Lombardia il sindaco Giuseppe Sala dice “Milano dia la linea” al resto dei Dem del Paese e propone dieci personalità “di esperienza e in grado di piacere non solo al nostro piccolo mondo” per gestire il dopo Renzi, al di sotto del Rubicone Nicola Zingaretti propone al Pd il “modello Lazio” e lancia “l’Alleanza del Fare” in vista delle prossime elezioni. Il governatore laziale vorrebbe una coalizione larga, capace di riconquistare quell’elettorato che si è spostato verso il M5S. Ma Zingaretti per ora frena la possibilità di una sua discesa in campo alle primarie: “Qui non sbaracchiamo – avverte – quando mi candiderò ve ne accorgerete”.
Mentre Paolo Gentiloni – che in base ai sondaggi in possesso dei Dem resta il leader in cui gli italiani hanno più fiducia dopo Sergio Mattarella – continua a tenersi fuori rispetto alle vicende partitiche e a esercitare il suo ruolo a Palazzo Chigi. Il tutto mentre i renziani potrebbero avere in mente un’altra carta da giocare in assemblea, vale a dire quella di Lorenzo Guerini come possibile candidato in grado di sfidare Maurizio Martina per condurre il partito fino al congresso, affiancandosi al presidente Matteo Orfini.
Anche se il diretto interessato si schernisce e assicura di voler fare “il parlamentare semplice”, è proprio lui, Guerini, a tessere le fila per un dialogo interno al partito in modo che si giungesse a una mediazione senza contarsi in direzione, configurandosi come il principale ‘pontiere’ in questi giorni convulsi. E’ stato sempre lui a intestarsi il primo documento sottoscritto da 121 membri della direzione che, se da un lato ha dimostrato la forza numerica dell’ex segretario, dall’altro ha però evitato che con un voto in direzione di arrivasse alla fotografia di un Pd lacerato tra una maggioranza renziana forte, ma un po’ più debole di prima, e una minoranza che tale sarebbe rimasta seppure con qualche simpatizzante in più. Ed è stato sempre Guerini a depositare e poi annunciare di ritirare quell’ordine del giorno giovedì 3 maggio che gli ha permesso di giocare una partita tutta politica nel parlamentino Dem, dove era stato depositato anche un odg delle minoranze, poi ritirato anche questo.
Insomma, strategie che alla fine hanno permesso di tenere unito il partito sulla fiducia a Martina, sul ‘no’ all’intesa politica con il M5S o la Lega e l’apertura a un governo di tregua. Lunedì al Colle la delegazione assicurerà la propria disponibilità a sostenere un esecutivo non politico con un premier terzo. Un futuro nodo per i Dem ci sarà se dovesse presentarsi la possibilità di appoggiare – in qualche modo – un esecutivo di responsabilità o del presidente con il centrodestra, ma senza i Cinquestelle. In quel caso il Pd sarà chiamato a decidere il da farsi, con il forte rischio di regalare al M5S la prossima campagna elettorale.