Sono passati 40 anni dal giorno in cui alla donne è stato riconosciuto il diritto di scegliere sul proprio corpo. L’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) è stata introdotta con la legge 194 il 22 maggio 1978 (e confermata nel referendum del 1981) e da allora protegge le donne dall’aborto clandestino. Prima, interrompere una gravidanza indesiderata voleva dire mettersi nelle mani di una mammana e del suo ferro da maglia o affidarsi al cucchiaio d’oro di un medico che praticava illegalmente l’aborto. Ed era una sorte che toccava a 250mila donne ogni anno, in condizioni igieniche precarie, con il rischio di contrarre infezioni gravi e morire di setticemia.
A 40 anni da questa conquista però, c’è il rischio di un ritorno alla clandestinità. “I medici che fanno obiezione di coscienza sono in aumento e contemporaneamente diminuisce il numero delle strutture che praticano l’interruzione di gravidanza, soprattutto quella terapeutica dopo la 12esima settimana”, denuncia Silvana Agatone, presidente di Laiga, Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’applicazione della legge 194/78.
Il rapporto del ministero della Salute parla di un fenomeno dimezzato dagli anni ‘80, con il 60% degli ospedali sul territorio nazionale che offrono il servizio e sette dottori obiettori su dieci. “La diminuzione c’è, grazie alla contraccezione e alla maggiore consapevolezza. Ma l’errore del Ministero – continua Agatone – è non considerare la richiesta delle donne. Se in una città va in pensione l’unico medico che pratica l’interruzione di gravidanza e nessuna donna può più usufruire del servizio, non significa che in quella città non si abortisce più. Le donne andranno altrove. E se non risulta che siano andate in altri ospedali, allora parliamo di ritorno all’aborto clandestino”.