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Running, la Boston marathon: dove il cuore dei maratoneti batte più forte

Foto AP-LaPresse - Tutti i diritti riservati

Chi non corre sogna la maratona di New York. Chi corre, quella di Boston. Non solo perché chi viene qui ha ottenuto il diritto a iscriversi con un tempo di qualifica realizzato in una precedente maratona, piuttosto stringente e spesso inseguito per anni.

Boston qualifier” è un motivo di orgoglio atletico, di riconoscimento per il proprio impegno, per gli allenamenti all’alba, al buio, rosicchiando tempo a lavoro e vita privata. Ma anche per chi è qui con le charity, le raccolte fondi di beneficenza, o con i tour operator specializzati, la Boston Marathon resta speciale, perché si concretizza in un rito collettivo che coinvolge tutta la città e dura l’intero weekend lungo del Patriots’ day, la festa celebrata il terzo lunedì di aprile in Massachusetts e Maine.

La zona intorno alla finish line, su Boylston street nei pressi di Copley Square, è dai giorni precedenti il cuore di questa festa. Qui si incrociano gli eventi organizzati dalla Boston Athletic association e orde di runner e accompagnatori. Il segno distintivo di chi corre è la giacca celebrativa. Perché chi la indossa ha già corso da Hopkinton a Boylston, è ‘Boston proud’, la sfoggia con orgoglio. La giacca si compra per ogni edizione cui si partecipa, ma si indossa sempre la prima. E c’è chi ci appiccica le patch degli anni passati, chi vi fa ricamare gli anni delle edizioni corse, ed è tutto un indicare schiene e maniche, “guarda quante”, mentre il proprietario sorride soddisfatto.  It’s all about the jacket”, si scherza, è tutto per la giacca.

È come trovarsi catapultati in un festival del running, fa tornare in mente quei raduni di appassionati di fumetti o videogiochi: migliaia di persone rigorosamente in tenuta sportiva affollano presentazioni di libri, incontri con atleti professionisti, corsette pre gara, mentre litigano per le limited edition offerte dalle varie marche presenti con i loro pop-up store lungo Boylston e Newbury street, la strada parallela. Un’eccitazione senza tregua che va scemando all’imbrunire della domenica, con gli ultimi sguardi alla finish line dove inesorabile il countdown segna l’avvicinarsi della gara. L’ultimo sguardo prima di dormire è alle previsioni meteo. “New England’s weather”, dicono qui scuotendo la testa, il tempo è pazzo e le temperature cambiando radicalmente nel giro di ore. Nei giorni precedenti la gara era nuvoloso, con pioggia e raffiche di vento. Lunedì mattina, sole e caldo oltre i venti gradi.

È un rito arcaico, la Boston Marathon, quest’anno sponsorizzata per la prima volta da Bank of America. Ci si ritrova a posare la propria borsa con il cambio per l’arrivo per poi dirigersi a Charles street- nel cuore di Boston common, il parco pubblico più antico degli States – dove si sale sui tradizionali Bus school gialli, quei pulmini che vediamo in tanti film ambientati in America. Sono stretti e scomodi – a misura di bambino, non di migliaia di adulti- ma fanno parte dell’esperienza. In circa un’ora di tragitto ti portano a Hopkinton, punto di partenza da cento anni della gara che è point-to-point, cioè va da un punto all’altro, sulla scia della prima maratona olimpica, del tragitto da Maratona ad Atene. Una particolarità rispetto alle gare moderne che impedisce che vi siano riconosciuti record, ma ne aumenta il fascino. Scesi dal pulmino, si entra nel villaggio degli atleti, ci si riposa un attimo, si controllano le ultime cose, ma di lì a poco bisogna incamminarsi per circa un chilometro verso le griglie di partenza. La gara parte tardi, l’ultima onda ha lo start alle 11.15: è per il New England’s weather, quest’anno faceva caldissimo, l’anno scorso, come tante altre volte, c’era vento freddo e pioggia. Nel 2018, quando vinse l’americana Des Linden, a Hopkinton c’erano 4 gradi e diluviava.

La cosa più incredibile di Boston è il tifo, che non ti lascia mai solo. Sono 42 kilometri e quasi duecento metri di urla, cartelli, incoraggiamenti, musica. Bambini cui dare  il cinque, signore che offrono spicchi d’arancio, caramelle, fazzolettini, caramelle, gelatine, bicchieri d’acqua, signori che offrono una doccia fresca con le pompe da giardino. Intere famiglie assiepate in giardino, con sedie, barbecue e litri di birra. È un giorno di festa qui ed è festa grande: tutti hanno il loro posto in prima fila, tutti partecipano al grande evento. Gli spettatori, qui, sono parte della gara quasi quanto chi la corre.

C’è un punto, in particolare, che è famoso: lo scream tunnel del Wellesley college, a metà gara. Centinaia di persone assiepate dietro le transenne che urlano incitamenti cosi forte che si sentono a grande distanza, decine e decine di cartelli -c’è un comitato ad hoc all’interno del college, si può anche richiedere il proprio messaggio personalizzato facendo una donazione – studentesse che promettono baci agli atleti più intraprendenti, un’energia pazzesca che risolleva dalla fatica, fa battere forte il cuore, fa volare le gambe. Dopo i chilometri iniziali per lo più in discesa, queste sono le flat miles, il percorso è sostanzialmente pianeggiante – ma chi ha corso la maratona di Boston sa che di pianeggiante in tutta la gara c’è ben poco – si inizia a far fatica, e la parte più dura deve ancora arrivare.

Dopo una discesa ripida che mette a dura prova i quadricipiti iniziano le Newton hills, una serie di 4 salite non particolarmente lunghe o difficili ma in rapida successione e in un punto della gara, intorno al 30simo chilometro, in cui spesso i maratoneti vanno in crisi. Il tifo incoraggia, c’è chi ti urla “remember you’ve paid for this”, hai pagato per essere qui, chi ti incita dicendoti che te ne manca solo una, la heartbreak hill, la collina spaccacuore che è un po’ il simbolo di tutta la maratona. “Start slow, finish fast”, è stata la raccomandazione di Kathrine Switzer – la prima donna ad aver corso ufficialmente una maratona, proprio qui a Boston nel 1967-  perché dopo la Heartbreak inizia un tratto di lunga discesa, all’arrivo mancano circa 8 chilometri e chi ha gestito bene il tragitto fin qui può dare tutto quello che ha. A dare il ritmo ci pensano gli studenti del Boston College, anche qui il tifo è calorosissimo, è tutto un “go” è un “you’ve got this”, il traguardo si avvicina, c’è un sottopasso sul cui cavalcavia capeggia lo striscione Boston strong, slogan nato dopo l’attentato alla maratona del 2013 per simboleggiare la reazione della città e diventato il mantra dei suoi maratoneti. A un miglio dal traguardo si passa accanto al cartello Citgo, che accompagna i runner nell’ultimo sforzo, c’è ancora un sottopasso da fare, ripido ma breve, poi si torna sulla strada. Right on Hereford, left on Boylston, le due curve più famose: ultimo strappo in salita, poi 600 metri di lieve discesa verso la finish line, il traguardo, la medaglia.

Quando arriva la maggior parte dei partecipanti – 26.596 alla partenza -i pro hanno tagliato il traguardo da tempo, sono già stati incoronati ‘campioni di Boston’ con la corona di ulivo bagnata d’oro: quest’anno ha vinto per la seconda volta di fila la keniana Hellen Obiri in 2:22:37, mentre tra gli uomini ha trionfato l’etiope Sisay Lemma in 2:06:17. Ma alla fine, a Boylston Street, vincono tutti.

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