Se c’è un punto su cui la gigantesca, multiculturale, eterogenea e politicamente democratica New York è unita, è il suo ‘no’ a Donald Trump. Un’opinione corale con cui i newyorkesi bocciano l’operato del presidente repubblicano e loro concittadino.
Il magnate eletto l’8 novembre dello scorso anno è nato nel Queens, da nonni immigrati dall’Europa e padre poi diventato un noto immobiliarista. Ed è a Manhattan, a quattro passi da Central Park, il luccicante e opulento grattacielo color oro e nero della Trump Tower, la più nota delle costruzioni del magnate nella città e diventata un simbolo. Del Trump spregiudicato immobiliarista, del Trump diventato ‘brand’ con incursioni in tv ed editoria, e infine quella del Trump sbarcato in politica e arrampicatosi sino alla Casa Bianca.
In qualità di simbolo, la Trump Tower di 58 piani sulla Fifth Avenue è ogni giorno fotografata da centinaia di turisti provenienti da tutto il mondo che, davanti all’ingresso, vogliono farsi immortalare con un pezzo d’America che chiunque può riconoscere. Ed è un ‘obiettivo sensibile’, a rischio di attacchi e proteste, e perciò luogo sorvegliato senza sosta dalla polizia e transennato con blocchi di cemento. Di quelle proteste, un presidio quotidiano occupa il marciapiede di fronte all’accesso, dove alcuni dimostranti stanno in piedi con grandi cartelli. Vi si leggono slogan come ‘Trump non sei il nostro presidente’, ‘No al razzismo’, ‘No all’odio’.
Uno dei quattro manifestanti, un professore di 56 anni che non vuole dire il suo nome “perché la sua voce è quella di molti, la singola persona non conta”, afferma che “Trump ha fomentato l’odio, ha usato lo slogan ‘Make America great again’ ma nella pratica ha applicato quello ‘Make America hate again'” (cioè ‘Rendiamo l’America grande di nuovo’ e ‘Facciamo odiare l’America di nuovo’).
Cita misure come il ‘travel ban’ per tenere i musulmani fuori dal Paese, quelle contro le minoranze in genere, e la spaccatura con gli stessi repubblicani. “L’America è un grande Paese, Mr. President lo rende piccolo: sta spezzando il sogno americano, con tanti rischi e tante conseguenze per le persone normali”, aggiunge, concludendo: “Io sono di New York, la mia famiglia vive qui: Trump non rappresenta questa città”.
Una passante, la 34enne Susan che lavora in un negozio di un grande marchio d’abbigliamento, è d’accordo: “Vuole affossare l’Obamacare, che non è perfetto ma ha migliorato la vita di molte persone, e con la riforma fiscale saranno colpite nei loro conti in banca molte persone tra cui gli universitari, mentre i grandi ricchi avranno agevolazioni”.
Barbara, 53enne in tenuta sportiva di ritorno da una corsa a Central Park, racconta: “Mi definisco democratica, sono lesbica, ma sono anche molto scettica con certi democratici, lo sono stata con la candidatura di Hillary (Clinton, ndr). Trump vuole ridurre le tasse alle aziende dal 35% al 20%, ma i newyorkesi che hanno stipendi medio-alti da lui ottengono qualche promessa sul risparmio di spiccioli. La classe media prima o poi sparirà”. La base elettorale che lo appoggia però, secondo lei, non lo abbandonerà: “Pensiamo al Russiagate, non gli causerà danno nella sua base perché questa in genere non approfondisce i fatti, è poco istruita e si beve le sue bugie”.
Duro con Trump è anche Lorenzo Cresce, figlio di immigrati italiani, in età da pensione ma venditore di piccoli dipinti a Central Park. Racconta di essere stato un hippy dai capelli lunghi, di aver vissuto in una barca e ascoltato musica psichedelica, mentre ora indossa un cappellino decorato con una spilla che raffigura la bandiera americana. “Sono un indipendente. Ero un democratico, un ‘democratico di Kennedy'”, dice, e indicando due quadretti, spiega: “Qui ho un grande democratico, JFK, qui ho un grande repubblicano, Reagan. Se fossero con noi oggi, ci chiederebbero cosa stiamo combinando, se siamo diventati tutti pazzi”.