Nel processo ai cinque carabinieri imputati a Roma per la morte di Stefano Cucchi vengono chiamati a testimoniare gli indagati nel nuovo filone di indagine, legato ai presunti depistaggi messi in atto da esponenti dell’Arma sulla vicenda.
Davanti al giudice parla Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione Tor Sapienza, indagato per falso insieme ad altre sei persone, cinque delle quali carabinieri. Colombo ripercorre la vicenda dalla notte dell’arresto di Stefano Cucchi, il 15 ottobre, quando il geometra venne portato dolorante dopo il presunto pestaggio avvenuto nella stazione Casilina. Colombo non vide Cucchi quella sera, né lo vide nei giorni successivi, e dopo la morte del geometra romano, avvenuta il 22 ottobre, una serie di richieste arrivarono sulla vicenda dai suoi superiori, a cominciare dalle relazioni chieste dal comando provinciale ai due militari Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano, delle quali finirono poi agli atti doppie versioni, modificate su ordine di esponenti dell’Arma, e nel caso di Colicchio a sua insaputa.
La mattina del 30 ottobre del 2009, quando la morte di Stefano Cucchi era diventato un caso mediatico ed erano partire le indagini della procura, ci fu una riunione presso la sede del Comando provinciale di Roma, in piazza San Lorenzo in Lucina, alla presenza del generale Vittorio Tomasone e del colonnello Alessandro Casarsa, all’epoca a capo del Gruppo Roma, con tutti i militari in qualche modo coinvolti nella vicenda. “Per come si svolse, mi sembrò una riunione di alcolisti anonimi“, ha detto Colombo davanti ai giudici della Corte d’Assise nel processo che vede imputati 5 carabinieri. “L’incontro, non ufficiale, durò meno di un’ora – ha ricordato Colombo – e nulla fu verbalizzato. Tomasone disse ‘bravo’ a Colicchio che chiamò il 118 quando vide che Cucchi, portato in cella di sicurezza, non stava bene mentre rimproverò Mandolini che era intervenuto un paio di volte per supportare un suo collega che non era stato capace di spiegare con chiarezza il suo ruolo nella vicenda. Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato. In quella sede non si parlò della doppia annotazione”.