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Guido Rossa, 40 anni dopo i misteri e le domande sulla vicenda dell’operaio ucciso dalle Brigate Rosse

Foto AP-LaPresse - Tutti i diritti riservati

Diluviava quel 27 gennaio del 1979 in piazza De Ferrari, ai funerali di Guido Rossa. C’erano 250 mila persone che riempivano tutto il centro di Genova giù fino a piazza della Vittoria e anche oltre. Il palco era stato allestito lungo la parete esterna di Palazzo Ducale, il carro funebre argentato era lì sotto, circondato dagli operai e dai delegati dell’Italsider che si stringevano l’uno all’altro nei loro giacconi color ruggine. La folla ruggiva che era ora di cambiare e che il Pci doveva governare. Luciano Lama, segretario generale della Cgil, sotto lo sguardo fermo e preoccupato del presidente della Repubblica Sandro Pertini, disse: “Se un gesto di coraggio civile compiuto da Guido Rossa non fosse rimasto troppo isolato, forse la vita di questo nostro compagno non sarebbe stata spezzata”. Pertini annuiva gravemente mentre lacrime amare scendevano lungo le guance dei suoi compagni di lavoro. E oggi, a 40 anni di distanza, a ricordare Guido Rossa, alla commemorazione che si terrà alle 11,30 allo stabilimento ArcelorMittal, ex Ilva, ci sarà anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella (fratello di Piersanti, vittima delle Br).

La scena era anche Storia e i dati, i fatti, i ragionamenti, le domande e quello che poi sarebbe successo, erano già lì in quella piazza, squadernati sotto gli occhi di tutti da quando tre giorni prima, all’alba del 24 gennaio, Guido Rossa era caduto sotto il piombo delle Br. Solo una cosa era ovviamente ignota: l’identità degli assassini. Oggi i nomi li conosciamo: il killer (Riccardo “Roberto” Dura, che uccise Rossa contravvenendo all’indicazione di gambizzarlo) è morto il 28 marzo del 1980, quasi certamente “giustiziato” dai carabinieri del generale Della Chiesa, nel covo di via Fracchia; l’uomo che gli sparò alle gambe (Vincenzo “Pippo” Guagliardo) è semilibero e ha raccontato quello che sapeva; l’autista (Lorenzo “Elio” Carpi) è sparito alla fine del 1980 e, da 40 anni non se ne sa più nulla. Sulla sua testa c’è una condanna all’ergastolo. Alcune delle domande riguardano le Br, altre la fabbrica, il contesto e le vicende di quegli anni. Proviamo a ritornarci sopra.

Chi erano e quanto contavano le Br a Genova?

La colonna genovese delle Brigate Rosse contava (tra clandestini e irregolari) su 50/70 persone. Per la maggior parte erano studenti. Pochi gli operai. Quasi nessuno nelle grandi fabbriche. Un po’ più larga l’area dei fiancheggiatori. Ancora di più quella “zona grigia” dove circolavano ragionamenti come “sono compagni che sbagliano” o “né con lo Stato né con le Brigate Rosse”. Anche nelle fabbriche (Italsider compresa) c’erano non pochi lavoratori che ragionavano così. Da qui a dire che le Br avessero un reale consenso, ce ne corre. Come vedremo, l’assassinio di Guido Rossa dimostrò quanto labile fosse il rapporto tra le Br e quella classe operaia di cui si autoproclamavano “avanguardia”. La crisi era importante e la città ne era colpita ogni giorno. Ma classe operaia, sindacati e Partito Comunista erano largamente in grado di “tenere” e di continuare ad allargare gli spazi e le conquiste che, tra l’altro, proprio in quegli anni furono numerose e importanti: dallo Statuto dei lavoratori, alla riforma sanitaria, dal divorzio, all’aborto solo per citarne alcune.

Cosa accadde davvero e perché Guido Rossa decise di denunciare Berardi?

Il 1978, a cominciare dal sequestro e dall’uccisione di Aldo Moro, era stato un anno durissimo. Sembrava quasi che il Pci fosse, politicamente, il primo obiettivo delle Br che, uccidendo Moro avevano di fatto distrutto la strategia del compromesso storico facendo un enorme favore alla destra internazionale e alla linea di Kissinger negli Stati Uniti. Questi fatti e il timore che certe posizioni potessero far presa su alcuni settori della classe operaia, avevano spinto il Pci a definire una linea dura nei confronti delle Br. L’indicazione di “tolleranza zero” venne chiarissima insieme alla richiesta di riferire tutto quello che si veniva a sapere sull’attività dei terroristi. Da quel momento, per gli uomini e le donne del Pci, i brigatisti erano nemici e non valeva l’appartenenza alla stessa classe di fronte a quello che, ormai, era definito un “gruppo di assassini”. Sembra poi che Guido Rossa avesse ricevuto dal partito un incarico particolare di tenere d’occhio l’Italsider sia dal punto di vista dell’attività delle Br sia da quello dell’eversione di destra. Quel giorno, il 28 ottobre del 1978 Guido si trovò con un problema serio: Francesco Berardi era stato colto a diffondere volantini delle Br e Rossa decise di denunciarlo. Mentre ancora molti tentennavano e il Consiglio di Fabbrica dell’Italsider sembrava incapace di decidere, Guido Rossa si prese sulle spalle la responsabilità di denunciare Berardi. Agì in piena coscienza certo di fare il suo dovere di cittadino e di comunista. Quel giorno, forse, cominciò a morire.

Guido Rossa fu lasciato solo?

La risposta, alla luce dei fatti e delle testimonianze, purtroppo è “sì”. Ovviamente con gradi e livelli diversi di responsabilità. Come si diceva, il Consiglio di fabbrica tentennò a lungo, poi lo appoggiò, ma non si arrivò mai alla decisione di una denuncia collettiva che, forse, avrebbe evitato a Rossa la testimonianza personale in tribunale. Ma altri, lo Stato prima di tutto, abbandonarono Rossa al suo destino. Il pm Luciano Di Noto, che ne raccolse la testimonianza e ha sempre riconosciuto l’eroismo di Guido Rossa, ha detto che qualcuno (non lui) avrebbe dovuto prendere la decisione di assegnargli una scorta. Perché non se ne fece nulla? Semplice insipienza o qualcuno fece una scelta? Difficile oggi credere che apparati dello Stato potessero avere interesse alla morte di Guido Rossa. O che qualcuno potesse arrivare a pensare che uccidendo Guido le Br (che, evidentemente non servivano più) avrebbero sancito la loro stessa fine. Di certo, però, ci furono leggerezza e ritardi. La scorta fu data a sindacalisti meno esposti (anche compagni di lavoro di Guido) ma non a lui. Che ne fosse chiara la necessità è dimostrato anche dalla battuta di un carabiniere che gli disse: “Si procuri una pistola”. Guido (come racconta la figlia Sabina) lo fece ma, ben presto, si rese conto che girare armati era troppo pericoloso. Partito e sindacato decisero di dargli una scorta non ufficiale ma sembra che lo stesso Rossa non volesse che altri compagni rischiassero per lui. Fatto sta che la mattina del 24 gennaio, in via Ischia, non c’era nessuno ad accompagnarlo al lavoro.

Perché Riccardo Dura decide di uccidere Guido Rossa?

La mattina del 24 gennaio, il commando delle Br ha l’indicazione precisa di gambizzare Guido Rossa. Guagliardo esegue sparandogli a una gamba, ma Dura, mentre “Pippo” sta già scappando, torna indietro e lo uccide. La cosa fece discutere (se non litigare) il terzetto in fuga e nelle Br se ne parlò a lungo. La domanda sul perché Riccardo Dura decide di uccidere il sindacalista aleggia ancora pesantemente su questa storia. Le risposte possibili, sono le seguenti: a) Dura era feroce e sanguinario. Uccide Rossa perché lo riteneva un infame. Possibile, ma ci si chiede come mai, pochi mesi dopo, Dura diventa capocolonna: è un pazzo sanguinario o un dirigente politico? b) Qualcuno (si dice Mario Moretti) avrebbe detto a Dura di uccidere Rossa indipendentemente dalle indicazioni ricevute. Come mai? Si disse che Moretti doveva rendere conto ad altri livelli internazionali e che a questi livelli, l’uccisione del sindacalista avrebbe fatto comodo. Perché? Si torna al punto precedente: le Br andavano liquidate e questo era un modo. Va detto, però, che sul punto Moretti ha dichiarato addirittura che uccidere Rossa fu un errore gravissimo e che, secondo lui, l’operaio dell’Italsider non andava nemmeno gambizzato; c) Dura uccide Rossa semplicemente perché temeva che lo potesse riconoscere dato il covo di via Fracchia era a poca distanza da casa di Guido e che era possibile che il sindacalista e Dura si fossero già incrociati. Tanto più che Rossa era uno che teneva gli occhi aperti. E’ difficile scegliere la più corretta tra queste ipotesi (e possono essercene anche altre). Se Carpi venisse preso o tornasse potrebbe forse aiutare a capire qualcosa di più.

La fuga di Carpi. Dove è finito l’autista delle Br?

Lorenzo Carpi è in fuga praticamente da 40 anni. “Elio” sfuggì ai blitz e alle ricerche degli ultimi mesi del 1980 e, da allora, non se n’è più saputo nulla. L’hanno cercato? O per qualche motivo è stato lasciato scappare? Anche qui si possono fare diverse ipotesi: a) Carpi è morto. Possibile, ma se qualcuno (polizia, carabinieri o servizi) lo sapesse, la cosa si dovrebbe risapere anche per i parenti (c’è una sorella che ha sofferto moltissimo questa vicenda) che avrebbero diritto di sapere; b) Carpi ha tradito le Br e, quindi, la sua “fuga” sarebbe stata coperta fin dall’inizio. Possibile, ma anche altri hanno parlato in quel periodo e non sono stati lasciati liberi (al massimo hanno avuto sostanziosi sconti di pena). Da escludere anche il ruolo di infiltrato perché Carpi ha partecipato a tre omicidi anche se solo in veste di autista; c) Carpi è solo più furbo e fortunato di altri. E’ scappato (non in Francia) ed è riuscito a far perdere le sue tracce. L’antiterrorismo lo ha cercato tre o quattro anni fa nel Nord del Portogallo. Gli inquirenti pensavano di essere arrivati vicini a prenderlo ma, poi, la cosa si rivelò un buco nell’acqua. Secondo alcune voci, recentemente, è ripresa un’attività di ricerca (non si sa dove) che, alla luce dei fatti delle ultime settimane potrebbe diventare più pressante. Un piccolo mistero: cinque o sei anni dopo la sua scomparsa, una signora genovese, madre di un compagno di scuola disse di aver incontrato Lorenzo Carpi nel sottopassaggio di Piazza De Ferrari. La signora era sicura e assolutamente in buona fede. Certo che se Carpi era in grado di tornare a Genova senza correre rischi, l’ipotesi “b” prenderebbe più forza.

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