Nessun reincarico, tutt’al più la possibilità di rimanere ancora in carica fino all’approvazione al Senato della legge di Bilancio, passaggio che il capo dello Stato Sergio Mattarella ritiene ineludibile pena l’esercizio provvisorio e una nuova ondata di speculazione finanziaria sui nostri titoli di Stato. E questa volta nemmeno il presidente della Bce Mario Draghi, sempre più nel mirino della Bundesbank, potrebbe salvare il nostro paese. Senza contare la questione delle banche, da risolvere cercando capitali in giro, come ha detto il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, che difficilmente arriverebbero in una situazione di totale instabilità.
Il percorso della crisi che si è aperta con le dimissioni irrevocabili di Matteo Renzi corre sul filo dei tecnicismi costituzionali e delle convenienze politiche: a cominciare da quelle dell’ormai ex inquilino di palazzo Chigi che la delusione e l’amarezza della scorsa notte sembravano averlo convinto a lasciare anche la guida del partito. In realtà Renzi sembra volersi concedere ancora una chance per l’oggi e per il domani. L’oggi si chiama Pd perché è proprio da largo del Nazareno che Renzi può tentare una nuova scalata alla guida del Governo. Non sarà una partita facile, perché tra i Dem si affilano i coltelli per una resa dei conti che potrebbe palesarsi già mercoledì, quando verrà riunita la direzione del partito. I discorsi sull’assetto e sulla natura del Pd saranno probabilmente rimandati al congresso previsto in un primo tempo nel prossimo autunno ma più probabilmente anticipato a febbraio.
Per il momento la battaglia si concentrerà sul futuro governo, su chi lo guiderà e sulla nuova legge elettorale. Cose di non poco conto, visto che, dato per assodato che una maggioranza ancora esiste e dunque non c’è ragione per cercarne un’altra, dovrà essere proprio il Pd a formulare al capo dello Stato il nome del successore di Renzi. Se l’ex premier si convince che ci sono spazi per un suo ritorno, a breve, sulla scena politica, non può che indicare un nome che fra un anno o quando sarà non si metta in competizione con lui per la guida del Governo. Un nome che non finisca prima o poi per fargli ombra: il presidente del Senato Pietro Grasso, che semmai nutre altre ambizioni, o il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan gradito al Quirinale e che come tecnico non potrebbe mai essere alle elezioni politiche il candidato premier dei Dem. Ogni altro candidato che fosse ‘politico’ finirebbe per costituire un ulteriore passaggio nell’opera di decostruzione del renzismo. Un incastro che coinvolge il Quirinale e gli alleati di Governo ma che piomba come un macigno in un partito nel cui dna e nella sua storia alberga la vocazione ad ‘uccidere’ i suoi leader ogni volta che sono caduti e soprattutto quando tentavano di rialzarsi.
Se per Mattarella ogni ipotesi di elezioni anticipate è da scartare, non così per l’ex premier che potrebbe puntare a una ricandidatura alla guida del Governo, ammesso e non concesso che vinca le primarie. Strada in salita ma più facile da percorrere quando ci sarà una nuova legge elettorale. Anche se racconta qualcuno, Renzi in tempi non sospetti disse che non sarebbe mai stato un premier da Prima Repubblica dove i governi molto spesso si formavano contrattando tutto con partiti e partitini. E lo spettro di una legge proporzionale è sempre dietro l’angolo anche se mitigata da una forte soglia di sbarramento. Convinto dopo le Europee di avere il vento in poppa il premier-segretario pensava di aver annullato o quanto meno frenato l’onda lunga del populismo di Grillo, rinato in pochi mesi come l’araba fenice. La verità è che del referendum costituzionale all’Europa di Bruxelles è sempre importato poco: il vero pericolo è antieuropeismo e l’antieuro di Grillo. Fermare i 5Stelle oggi sembra essere diventato una sorta di imperativo categorico.