Golpe dei militari in Sudan. L’esercito ha preso il potere, sciogliendo il governo di transizione civile e dichiarando lo stato d’emergenza poche ore dopo avere arrestato in mattinata il primo ministro Abdalla Hamdok e altri leader politici. Migliaia di persone si sono riversate per le strade, a Khartoum e Omdurman, per manifestare contro il colpo di Stato che minaccia il percorso del Paese verso la democrazia. Secondo quanto denuncia l’associazione dei medici sudanesi ‘Sudan Doctors’ Committee’, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sulla folla, provocando due morti e 80 feriti.
Il colpo di mano nel Paese africano, legato per lingua e cultura al mondo arabo, giunge oltre due anni dopo la cacciata dell’autocrate Omar al-Bashir a seguito di massicce proteste, e a poche settimane da quando l’esercito a novembre avrebbe dovuto cedere ai civili la leadership a rotazione del Consiglio che supervisiona la transizione. Il Consiglio sovrano è l’organo che prende le decisioni finali, mentre il governo di Hamdok è incaricato di gestire le attività del Sudan su base giornaliera.
Da tutto il mondo sono giunti condanne e appelli a proseguire sul cammino della transizione. La Farnesina ha espresso “preoccupazione per le notizie che giungono da Khartoum” auspicando che “si possa tornare al più presto allo spirito del processo di transizione democratica in Sudan, sostenuto dalla Comunità Internazionale”. L’Ue, per bocca dell’Alto rappresentante Josep Borrell, ha condannato l’arresto del premier e di altri membri della leadership civile chiedendone il rilascio immediato. Rilascio richiesto anche dall’Onu, che ha definito gli arresti inaccettabili. E gli Stati Uniti si sono detti “seriamente preoccupati”, chiedendo all’esercito di farsi da parte.
Tutto è cominciato quando in mattinata si è diffusa la notizia dell’arresto del primo ministro e di diversi leader politici. Poi nel primo pomeriggio il generale Abdel-Fattah Burhan, capo dell’esercito, ha tenuto un discorso tv in cui ha annunciato lo scioglimento del governo e del Consiglio sovrano (cioè l’ente congiunto di esercito e civili creato dopo la cacciata di al-Bashir per gestire il Paese). Il generale ha motivato l’intervento dell’esercito con lotte interne tra fazioni politiche (da settimane la tensione stava salendo a proposito della direzione e del ritmo della transizione democratica) e ha promesso che la transizione democratica verrà completata, riferendo che l’esercito nominerà un governo tecnico per guidare il Paese alle elezioni, che sono in programma per luglio del 2023. Tuttavia ha chiarito che il potere resta ora in mano ai militari: “Le forze armate continueranno a completare la transizione democratica fino alla consegna della leadership del Paese a un governo civile eletto”. Per il ministero dell’Informazione, ancora leale al governo sciolto, il discorso del generale è stato un “annuncio di presa del potere con un colpo di Stato militare”.
I timori che l’esercito stesse pianificando una presa del potere andavano avanti da settimane e a settembre era fallito un golpe attribuito a seguaci di Al-Bashir. È da quel momento che la tensione è salita, con proteste di entrambi i campi: da una parte gli islamisti conservatori che vogliono un governo militare contro chi ha fatto capitolare al-Bashir nelle proteste, dall’altra appunto chi si schierò contro l’autocrate. In tutto questo i generali avevano ripetutamente chiesto di sciogliere il governo di transizione di Hamdok. E Burhan, che guida il Consiglio sovrano, aveva detto frequentemente che l’esercito avrebbe consegnato il potere solo a un governo eletto, indicazione che i generali non intendessero rispettare il piano di cedere la guida del Consiglio ai civili a novembre.
Da quando al-Bashir, che si trova in carcere, è stato costretto a lasciare il potere, il Sudan aveva iniziato il suo percorso di ‘riabilitazione’ internazionale: nel 2020 era stato rimosso dalla lista Usa dei Paesi che sostengono il terrorismo, il che ha spianato la strada per prestiti e investimenti stranieri. Ma l’economia sudanese ha dovuto fare i conti anche con lo shock delle riforme economiche chieste dai creditori internazionali. Il senatore Usa Chris Coons, stretto alleato del presidente Joe Biden e membro della commissione Esteri, ha avvertito che Washington potrebbe tagliare gli aiuti al Sudan “se l’autorità di Hamdock e del governo di transizione non verrà ripristinata”.