Massimo Zamboni torna a cantare dopo dodici anni, e lo fa con “una scelta molto decisa, quella di esporre la voce in maniera sfacciata, in un certo senso così fuori dai canoni”. Perché il fondatore dei CCCP e dei CSI, anche negli anni della sua carriera da solista, aveva sempre usato la sua voce in modo defilato. ‘La mia patria attuale’, il suo nuovo album, esce venerdì per Universal Music Italia.
“Il disco è più narrativo che musicale, in qualche modo. Sono più cantore che cantante. Nella mia testa questi elementi stanno tutti assieme”, dice Zamboni riferendosi alla sua timidezza. “Se potessi restare al buio sul palco, sparire ed esistere soltanto come voce, sarebbe la mia dimensione più adatta. Non so mai dove mettere le mani, non so come muovermi. Sento che ho un corpo che recalcitra rispetto a un’esibizione. Certamente non sarò mai un frontman, però mi piace molto questa idea di essere strumento. È una scoperta assolutamente tardiva, sono arrivato alla voce tardissimo. Non ho mai parlato e non ho mai cantato, in questi anni è uscita quasi da sola questa volontà. Poter cantare le proprie parole conferisce a queste una profondità assolutamente maggiore. Il corpo che le ha generate le mette in musica e le fa rimbalzare. È un accordo quasi perfetto, e mi dà l’idea della crescita”.
“Ho suonato pochissimo le chitarre, perché volevo affidarmi al canto e al testo. Ho composto le chitarre, e altri le hanno suonate in maniera eccellente. Volevo darmi un ruolo differente”, spiega parlando del disco appena uscito. Voler sparire sul palco e voler cantare dal vivo un disco in cui la voce è molto presente “è un problema teorico di non facile soluzione, ma essendo un ragazzo ingegnoso troverò la mia maniera di convivere tra queste due tendenze”. C’è in programma un tour, “stiamo cominciando a fissare date, la maggior parte sono tutte lì che ondeggiano nei calendari perché nessuno si decide a confermare che si potrà suonare”. Per ora è sicura la data del 29 gennaio, al Teatro San Francesco di Alessandria, “il primo esperimento pubblico”.
“Non temo ciò che viene, temo ciò che è venuto già”, canta ne ‘Il canto degli sciagurati’ e nei confronti del futuro non ha “molta preoccupazione, ho già una buona età e, per cultura o per istinto, so che non si deve avere troppa paura del futuro. È una sensazione che ti immobilizza in qualche modo”. E la riflessione assume anche termini collettivi: “Mi viene facile non avere paura del futuro, perché si deve avere paura di quello che è già arrivato, che ci impedisce di essere cittadini, essere umani, di essere vicini tra noi. Credo che sia meglio focalizzare le nostre apprensioni su qualcosa che è già tra noi, e così spesso ci assomiglia”.
E la riflessione sulla patria “è maturata dopo una lunga serie di pensieri, che in fin dei conti risale a quando abbiamo cominciato con le nostre prime canzoni quarant’anni fa. C’è quell’idea di definirsi, e definire il nostro ruolo al mondo. Siamo passati attraverso tante ricerche, dai paesi dell’Est, dell’Unione Sovietica, passando per Berlino, l’Europa estrema e la Mongolia. Passando ancora una volta per i luoghi di casa, come Cavriago e l’Emilia”. Dopo questi viaggi, il ritorno a casa e la decisione “di affrontare la parola ‘patria’. Il contenuto ideale di un territorio geografico nazionale. Che cos’è patria, cosa significa e perché non riusciamo a pronunciare questa parola. Cosa che non avviene in tutti i paesi del mondo. Mi sembra che gli italiani non la provino al di là delle grandi partite di calcio, perché è una parola che si è sempre imposta con la violenza, nei confronti dei suoi cittadini”.
“Al lato estremo della praticabilità repubblicana, in cui non contiamo assolutamente nulla, esistiamo soltanto e sempre meno nel momento elettorale. Ciò fa sì che pronunciare la parola patria sia molto difficile. Eppure esiste, un’Italia viva, che lavora, che studia, si spreme, si affatica e ci vuole essere, che è disponibile a impegnarsi senza risparmio. Questa è la vera spina dorsale del nostro paese”, racconta Zamboni. ‘Tira ovunque un’aria sconsolata’ era in origine il nome di un tour, “poi è diventata una canzone completa e sempre più aderente a quello che accade. Se scendo nelle città dalle montagne dove abito, vedo un carattere sconsolato. Generalizzando, mi sembra il carattere dominante. Conosco anche persone per nulla sconsolate, che sanno cosa fare della propria vita. E lo fanno senza piangere, con molta forza e molta dignità”.
Dal punto di vista personale, poi, “arrivata al culmine la spaccatura con CSI, sono precipitato in un abisso senza fine. È stato un lunghissimo cammino di ripresa”, culminato all’epoca nel brano ‘Prove tecniche di resurrezione’. “Sono diventato decisamente adulto in quel cammino. Adesso mi sento di ringraziare quello che è accaduto, mi ha dato la spinta a continuare. Incontrata in tanti luoghi, a Mostar come a Berlino, spesso è un dato della natura umana. Il dato di ripartire sempre con fatiche monumentali, alla fine ce la facciamo”.
Nel disco, “che parla decisamente in italiano, ed è suonato in italiano, c’è una piccola sorpresa in copertina, perché l’attrezzo raffigurato l’ho trovato a terra in una steppa mongola qualche anno fa. È finito sulla copertina perché mi piace pensare l’Italia guardandola da lontano, è sempre un punto di osservazione molto forte, che non si perde nei dettagli. Poi perché questo aspetto acuminato e così duro serve per togliere le fibre di cashmere, ha un compito assolutamente gentile e morbidissimo. Mi piaceva molto questa ambivalenza come oggetto”, dice Zamboni, riferendosi a “un pezzettino dissimulato di Mongolia”, molto presente nella produzione anteriore.