“Regole troppo stringenti potrebbero essere controproducenti. Prima è importante studiare, poi normare”. Se quello della regolamentazione delle criptovalute è un tema di strettissima attualità, come confermato ieri dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ha sottolineato la necessità di intervenire a livello normativo per “evitare bolle”, Raffaele Mauro invita comunque a non puntare sulla velocità a discapito dell’attenzione, perché in questa fase “non si spreca nulla se si investe in formazione”. Intervistato da LaPresse, il managing director italiano della società di impact investing Endeavor, in precedenza Head Finance for Innovation di Intesa Sanpaolo e autore nel 2016 del testo di riferimento ‘Hacking finance. La rivoluzione del bitcoin e della blockchain’, richiama poi l’attenzione su un altro aspetto: quello della “neutralità rispetto alle tecnologie”, fondamentale nel momento in cui si vanno a introdurre regole in un settore in piena fase dinamica, dove si stanno ancora costruendo e definendo le infrastrutture che supporteranno i servizi del futuro. Servizi che, come nello specifico, continueranno avere quello della decentralizzazione: cioè il superamento della necessità di avere un singolo ente – nel caso della valuta una banca centrale – che faccia capo al sistema.
Ma il tempo per studiare lo abbiamo? Non si rischia di finire travolti dagli eventi, nel frattempo?
Il tempo per studiare c’è sicuramente, perché la sovraeccitazione alla quale stiamo assistendo rispetto alle criptovalute non è pienamente artificiale, come lo era ad esempio quella che accompagnava i mutui subprime. Piuttosto, ricorda gli investimenti in titoli delle ferrovie nell’Ottocento o la bolla di Internet degli anni Novanta, che ha comunque accompagnato la nascita dei colossi sui quali si basa l’attuale economia digitale. Al momento, ripeto, il migliore investimento è in informazione: occorre formare e coinvolgere le persone.
Su quali aspetti occorre concentrarsi? Molta enfasi è stata posta sui rischi legati all’anonimato…
In realtà i sistemi più diffusi non sono pienamente anonimi, ma pseudonimi. E, soprattutto, si basano su registri pubblici: il bitcoin, in questo senso, è molto più “pubblico” del denaro contante. Piuttosto i temi di policy riguardano la tassazione e la dinamica delle bolle speculative. Ed è molto importante che Italia e Unione europea non perdano questo treno tecnologico.
Al di là delle valute, è possibile definire adesso quali saranno gli altri ambiti impattati dalle tecnologie e dai protocolli su cui si basano le criptomonete?
Blockchain è nata per realizzare bitcoin, la cui proprietà fondamentale è la decentralizzazione. Ora ci sarà una fase che può durare anni di costruzione delle infrastrutture base e poi delle applicazioni, come è successo per Internet prima del World Wide Web per la navigazione o del protocollo Http per il trasferimento delle informazioni. A livello teorico le applicazioni sono decine: dai sistemi di voto ai sistemi notarli, alla gestione delle informazioni in ambito medico o alimentare. Passando naturalmente dalla finanza: come sono state decentralizzate le valute, potrebbero venire decentrati anche i contratti sui prestiti, per fare un esempio, o le assicurazioni. Però bisogna anche discernere tra gli ambiti di potenziale applicazione e quelli dove ha effettivamente senso che l’applicazione ci sia. Andando anche a vedere dove il suo costo, alto, è sostenibile. L’elemento di filtro probabilmente sarà dato proprio da quanto nei diversi settori sarà importante la decentralizzazione.
Hai parlato di un costo alto per infrastrutture di questo tipo. In questa fase chi lo sta pagando?
Se parliamo dei database più grandi, ad esempio quello di bitcoin, l’intelligenza di chi ha creato il sistema ha previsto incentivi economici per chi fa funzionare le reti, quindi i costi di infrastruttura sono pagati dal mining (l’attività di generazione delle valute da parte degli utenti, che viene “ricompensata” in moneta virtuale ndr.). Nelle reti più piccole, o in quelle private, ci sono organizzazioni e consorzi che pagano per la tenuta dei nodi e sovvenzionano il sistema. Ma si tratta di un modello comunque in evoluzione.