Hanno assegnato una Coppa. C’è di che essere contenti? No, c’è di che vergognarsi. Di fronte di fronte a noi stessi e ai nostri figli: di fronte al calcio, di fronte al mondo.
Perché niente di quello che abbiamo visto ieri sera a Roma in occasione della finale di Coppa Italia ha qualcosa di normale. Incidenti, caccia all’uomo, scontri guidati e in qualche caso anche tollerati dalla polizia perché era meglio che i tafferugli tra le tifoserie si svolgessero in un settore della città piuttosto che in un altro. Per poi rendere lo stadio una specie di arena, un porto franco nel quale tutto può essere consentito perché ci sono le telecamere e la polizia ha un ruolo più agevole e meno ristretto. Ma fuori… poteva davvero capitare di tutto. E poi?
E poi si è deciso di giocare: per concedere al pubblico quel concetto di panem et circenses che noi stessi abbiamo inventato due millenni fa. Poco importa che si sia scesi a patti con delinquenti, con gente che con il calcio lo sport e l’educazione sportiva dovrebbe avere nulla a che fare. Poco importa che si sia fatta una figuraccia mondiale; quella del solito paese dove qualsiasi cosa può accadere, tanto… domani è un altro giorno. Poco importa che ci potesse scappare il morto e che si sia data di nuovo importanza e dignità di parola ai portavoce dei cosiddetti ultrà. I capipopolo. Rispettati perché hanno una lista di precedenti penali che evidentemente nel nostro paese vale quanto una graduatoria di merito. Loro decidono, loro concedono. Danno e tolgono maglie: iniziano e sospendono gare. Ed è tutto normale. Tutto tollerato. Normale che si tratti con criminali sottoposti a misure cautelari e Daspo che non dovrebbero nemmeno essere dentro allo stadio, normale che si fischi l’Inno d’Italia, normale che a fine gara trecento persone invadano il campo.
Siamo onestamente schifati. E non vediamo via d’uscita. Perché se l’unica soluzione è giocare perché non finisca peggio di come sta già andando vuol dire che siamo ostaggi senza speranza.
Il Quotista Mascherato