Poteva essere il Mondiale delle sorprese: è diventato invece il Mondiale in cui nulla, ma davvero nulla, può essere dato per scontato. Il Brasile che si fa fermare dal Messico e che rischia di passare secondo nel proprio girone, la Spagna e l’Inghilterra eliminate dopo due gare, il Portogallo che resta aggrappato a un filo grazie al gol di Varela che pareggia i conti contro una formazione come gli USA che ha qualità importanti in termini di qualità e di disciplina tattica.
Si è detto spesso: il top player può fare la differenza e chi ce l’ha è giusto che se lo tenga ben stretto, vedi Messi che con due tiri ha marcato sei punti per l’Argentina (leggi qui) o Hazard che con dieci minuti finali da paura ha suonato come un tamburo una difesa russa che sembrava Rocky alla quindicesima ripresa contro Apollo Creed.
Ma ci sono altri dati che emergono da questo mondiale: quello più eclatante è la fatica fisica. Nel 1950 nessuno pensava far che far giocare le gare alle 13 fosse una buona idea. Forse perché non c’erano le dirette sponsorizzate vendute a peso d’oro alle tv europee. E qui vanno in evidenza squadre come l’Algeria che galoppano e altre come le asiatiche che faticano in modo bestiale. O squadre che tecnicamente sono eccellenti, come la Bosnia, ma che balbettano alla prima esperienza che conta davvero.
È un Mondiale che sta livellando i valori e che porta in auge, ed era l’ora il calcio offensivo: all’insegna del vince chi segna più gol e non vince chi tiene di più la palla. Ordine, disciplina, difesa: ma alla fine vince chi segna, e forse anche chi rischia. Lo ha dimostrato Wilmots che mettendo in campo un ragazzino di diciannove anni come Origi ha ribaltato la partita con l’Algeria e vinto la sfida con la Russia aggiudicandosi un ruolo agli ottavi.
Io ne sono contento: lo sterile possesso palla in attesa che qualcosa succeda l’ho sempre trovato stucchevole e noioso. Il calcio è fatto anche di errori: che puniscono chi li commette e premiano chi ne sa approfittare.