La quota vincente
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Genova per noi: ma solo fino a un certo punto

Non sono genovese, non sono genoano, non sono sampdoriano: sono milanese di Varedo, ho sempre fatto l’agente di commercio e da quando lavoro cerco di andare in Liguria il meno possibile. Genoa e Sampdoria mi stanno ugualmente sulle palle, come i genovesi. Conosco uno degli autori di questo sito perché qualche anno fa i nostri cani hanno fatto amicizia prima di noi: è una brava persona ma pur vivendo a Milano da anni e avendo assunto tutti i difetti dei milanesi, ha saputo mantenere anche tutti i difetti tipici del genovese. È stato lui, sapendo come la penso, a sfidarmi “Io ti invito a un derby e poi tu mi scrivi le tue impressioni. Rilancio con un invito a cena…” Biglietto di tribuna e un invito a cena offerti da un genovese? E quando mi capita più. Accetto di corsa.

Detesto fare la A7 e imbottigliarmi in una città che fatico a capire e che sembra che non veda l’ora di rispedirmi a casa mia, nella nebbia. Per inciso non capisco neppure che cosa ci trovino migliaia di milanesi che per sette-otto mesi all’anno, ogni fine settimana, si buttano in autostrada per sostenere ore di code e di incertezza stradale per bere un caffè a Sestri Levante e tornare indietro.

Di tanto in tanto mi capita di vedere quei due comici genovesi, quelli di torta di riso o prenderselo… lì insomma. Li trovo molto divertenti e credo rispecchino perfettamente il modo di essere dei liguri. La Liguria, e Genova in particolare, mi hanno sempre fatto questa impressione: se le conosci la eviti. E loro sono ben contenti se li eviti.

L’invito a scrivere questo pezzo mi ha un po’ sorpreso, ma neppure tanto perché conoscendo il mio amico so che è fatto così. Dunque mi sono ritrovato una domenica pomeriggio di settembre giù dalle curve dei Giovi per seguire dettagliatamente le sue indicazioni per evitare di perdermi, come al solito, e rispettare l’appuntamento: ore 19.30 piazza della Vittoria. Lascio la macchina nei pressi di una stazione ferroviaria e ci incamminiamo a piedi lungo un tunnel e un vecchio quartiere che mi pare di ricordare si chiami Borgo Incrociati, o qualcosa del genere. C’è una rosticceria dove fanno la farinata: il mio amico ovviamente si ferma dice che è da una vita che non la mangia.

Fuori c’è un sacco di gente e prima sorpresa: i crocchi sono misti. Non ci sono percorsi alternativi: si va allo stadio tutti insieme, fidanzati mano nella mano uno con la sciarpa rossoblu l’altra con la maglia della Samp. E nessuno guarda storto nessuno: ci si ignora, della serie… “poi vediamo chi ride alla fine”.

Alla fine di questa passeggiata che costeggia il fiume che si trova a fianco allo stadio ci si separa: ho assistito a una scena pazzesca. Padre genoano con figlio sampdoriano e viceversa: il papà genoano se ne va con il figlio genoano dell’amico o fratello e stessa cosa per la controparte. Baci abbracci e tanti saluti.

Sampdoriani da una parte, genoani dall’altra. E qui, un minuto dopo i saluti, inizia quella che definirei una trance agonistica assoluta. Nel senso che non esistono più parenti, amici, fidanzate, padri genitori: esistono solo bibini (che mi pare di capire sia un tacchino, una sorta di presa in giro del grifone) e rumente, che in genovese vuol dire spazzatura che è il modo in cui i genoani chiamano la controparte.

Niente a che fare con il derby di Milano, cui forse siamo troppo abituati: qui invece pare siano tanto abituati a prenderselo in quel posto (la torta di riso devono averla finita da un pezzo) che questa partita è una delle cose più preziose dell’anno, e vale più di qualsiasi altra cosa. Una vittoria ti consente di guardare dall’alto al basso chiunque, in casa tua, in ufficio, di vivere di rendita anche se sei un morto di fame. Spesso non hai consolazioni, non è che qui perdi il derby e vinci lo scudetto, o vai in Champions League. Qui se perdi il derby… vabbè, avete capito. Lo prendi nelle mele.

Il derby? Non deve essere bello, ma intenso dicono qui. Lo stile calcistico non sembra essere ritagliato sulle caratteristiche di questa gente, anche se riconosco che il Genoa gioca piuttosto bene e la Samp, le poche volte che l’ho vista, non mi ha molto impressionato. Ma il derby è un altra storia: il Genoa ha picchiato come un fabbro ferraio mentre la Samp ha subito con dignità tre gol, e occasioni a raffica oltre a decine di falli e a una serie di sfottò che sono cresciuti proporzionalmente con il risultato del campo.

Ero in tribuna, più vicino alla Nord (Genoa) che alla Sud (Samp). E i tifosi del Genoa, giocando in trasferta, erano la minoranza: forse è perché ero più vicino che ho sentito più i cori loro che quelli dei blucerchiati. Ma tranquilli, non ci ho capito nulla: ho intuito che fossero piuttosto scurrili (ce n’è uno che parla di “avanzi di casino” che mi sembra più chiaro di altri) e velenosi. Mi ha emozionato sentire la voce di Fabrizio De Andrè prima della partita, e mi sono sentito vicino spiritualmente a quel manipolo di tifosi della Sud che mentre dall’altra parte li massacravano di cori e di insulti, alla fine della partita, restavano a sbandierare il loro blucerchiato. E non se ne andavano.

Fuori dallo stadio non è successo niente: i crocchi si sono ordinatamente ricomposti a duecento metri dallo stadio. Chi doveva festeggiare festeggiava. Gli altri subivano in silenzio. Sono anche andato in una piazza del centro, piazza De Ferrari, a vedere come si festeggia la vittoria di un derby per poi rotolare nel famoso centro storico di Genova dove tra odori acri e urla sguaiate abbiamo fatto le quattro del mattino. Ci siamo trovati in una birreria dove ho bevuto del sidro: parecchio per la verità.

Quando i suoi amici un po’ genoani e un po’ sampdoriani hanno capito che ero milanese e interista si sono coalizzati. E volevano darle proprio a me. In realtà alla fine mi hanno invitato per il derby di ritorno: ho già il biglietto e credo che andrò. Stavolta non per invito ed educazione ma per libera scelta.

“Tranquillo – mi ha scritto via SMS uno degli amici che ho conosciuto in pizzeria – comunque vada ti teniamo una fetta di torta di riso”.

Lorenzo – (Varedo)

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