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Il fondatore e ceo di Huawei, Ren Zhengfei, rompe il silenzio e respinge le accuse Usa secondo cui il gigante delle telecomunicazioni aiuterebbe Pechino a spiare i governi occidentali. In un incontro con i media stranieri, di cui riferiscono diverse testate internazionali fra cui il Wall Street Journal, Ren ha detto: “Personalmente non danneggerei mai gli interessi dei miei clienti e io e la mia società non risponderemmo a richieste del genere”. Si tratta di una rara apparizione in pubblico, la prima dopo l’arresto della figlia Meng Wanzhou, direttrice finanziaria, fermata a dicembre in Canada.

Ren, scrive il Wall Street Journal, non ha precisato come resisterebbe a eventuali richieste da parte del governo cinese. “Amo il mio Paese” e “sostengo il Partito comunista cinese, ma non farò mai niente che danneggi nessun’altra nazione”, ha dichiarato il ceo di Huawei, aggiungendo che gli manca la figlia ma che è ottimista che la giustizia prevarrà. 

“Non vedo una connessione stretta fra il mio credo politico e gli affari di Huawei”, ha detto ancora il manager 74enne parlando con i giornalisti stranieri nella sede della società a Shenzhen, in Cina. Nel corso dell’incontro ha anche definito Donald Trump un “grande presidente”: “Osa fare tagli di tasse massicci, che faranno bene agli affari. Ma bisogna trattare bene le società e i Paesi in modo che vogliano investire negli Usa e che il governo possa raccogliere abbastanza tasse”.

Le dichiarazioni di Ren giungono mentre Huawei deve affrontare sfide su più fronti: in primo luogo la figlia più grande è stata arrestata il 1° dicembre a Vancouver e si trova attualmente in Canada in attesa di essere estradata negli Usa con l’accusa di avere mentito sugli affari della società con l’Iran; in secondo luogo Huawei è stato bloccato da diversi mercati chiave; e la scorsa settimana un suo dipendente, Wang Weijing, è stato arrestato in Polonia con l’accusa di spionaggio per conto della Cina e la società lo ha licenziato prendendo le distanze. 

Infine i rapporti tra Ottawa e Pechino sono molto tesi, dopo la condanna a morte di un cittadino canadese in Cina, il 36enne Robert Lloyd Schellenberg, per traffico di droga. La Cina ha bollato come “dichiarazioni irresponsabili” quelle del primo ministro del Canada Justin Trudeau: “Esortiamo la parte canadese a rispettare lo Stato di diritto, a rispettare la sovranità giudiziaria della Cina, a correggere i suoi errori e a smettere di rilasciare dichiarazioni irresponsabili”, ha detto la portavoce del ministero cinese degli Esteri, Hua Chunying, dopo che lunedì Trudeau aveva espresso “estrema preoccupazione” per la condanna, affermando che “la Cina ha scelto di applicare in modo arbitrario le pene di morte in diversi casi, come in questo caso per un canadese”. La portavoce ha anche smentito quanto suggerito da alcuni gruppi a difesa dei diritti umani, cioè che Pechino abbia approfittato del caso per fare pressioni su Ottawa a proposito dell’arresto di Meng Wanzhou. 

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