Sarebbero circa 25-30 militanti jihadisti, alcuni dei quali sventolavano bandiere dell’Isis, gli autori della strage nella moschea egiziana di Rawdah a Bir al-Abed nel Nord Sinai, che venerdì ha provocato 305 morti, tra cui 27 bambini.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti sulla base dei racconti dei sopravvissuti, gli uomini armati Indossavano maschere e uniformi in stile militare. Hanno circondato la moschea, bloccato le finestre e aperto il fuoco con fucili automatici trasformando un venerdì di preghiera nel peggiore attacco terroristico nella storia recente dell’Egitto e si aggiunge a una lunga scia di sangue nella regione, dove da mesi prosegue la guerra tra esercito e gruppi estremisti.
I testimoni hanno raccontato che i fedeli avevano appena terminato la preghiera del venerdì quando una bomba è esplosa all’interno della moschea. La folla che fuggiva dall’edificio è stata poi falciata da una quarantina di uomini armati appostati all’esterno. I terroristi non hanno esitato, poi, a prendere di mira le ambulanze. “Quattro gruppi hanno attaccato i fedeli dopo le preghiere del mezzogiorno, mentre due gruppi hanno sparato contro le ambulanze per dissuaderle dall’intervenire”, ha detto Mohamed, un testimone.
Poche ore dopo l’attacco, le forze armate egiziane hanno lanciato raid aerei su obiettivi nelle aree montuose attorno a Bir al-Abed, hanno riferito fonti della sicurezza del Cairo. “Le forze armate e la polizia vendicheranno i nostri martiri e ripristineranno la sicurezza e la stabilità. Risponderemo con forza brutale”, ha detto il presidente Al Sisi parlando in televisione. “Quello che sta accadendo è un tentativo di fermare i nostri sforzi nella lotta contro il terrorismo, per fermare il terribile piano criminale che mira a distruggere ciò che resta della nostra regione”.
Colpire una moschea rappresenta un cambio di strategia per i gruppi armati del Sinai, che nei mesi passati avevano messo nel mirino esercito, polizia e chiese cristiane. I media locali hanno sottolineato che alcuni dei fedeli rimasti uccisi erano Sufi, che i gruppi jihadisti considerano obiettivi in quanto accusati di idolatria. Il Sinai settentrionale, che si estende dal Canale di Suez verso est fino alla Striscia di Gaza e Israele, è da tempo un territorio problematico per le forze di sicurezza egiziane. La situazione è peggiorata da quando il gruppo militante locale, Ansar Bayt al-Maqdis, ha dichiarato fedeltà allo Stato islamico nel 2014.
Gli spargimenti di sangue nel Sinai sono aumentati anche a causa del mutato contesto politico: da quando cioè, nel 2013, Al Sisi ha preso il posto del presidente Mohamed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, presentandosi come un baluardo contro l’estremismo islamista. A luglio di quest’anno, almeno 23 soldati sono stati uccisi da autobombe in due posti di blocco militari. A maggio, uomini armati avevano attaccato un gruppo di cristiani copti diretti a un monastero nel sud dell’Egitto, uccidendo 29 persone.
Solidarietà all’Egitto è arrivata dai leader di tutto il mondo. Il presidente Usa, Donald Trump, ha definito l’attacco “orribile e codardo contro fedeli innocenti e indifesi”. Il presidente russo Vladimir Putin ha condannato l’attentato che “colpisce per crudeltà e cinismo” e ha assicurato che “la Russia è disposta a espandere la cooperazione con il popolo egiziano nella lotta contro le forze del terrorismo internazionale”. “Nessuno dovrebbe essere ucciso a causa della sua religione, nessun luogo sacro dovrebbe essere profanato dalla violenza e dal terrorismo”, ha dichiarato l’Alto rappresentante per la Politica Estera Ue Federica Mogherini.