In principio, parliamo di una decina d’anni fa, furono i blogger i primi protagonisti del discorso collettivo digitale a essere coinvolti dalle aziende nelle attività di promozione di prodotti e servizi. Oggi il panorama è ben più vasto e le “etichette” si sprecano: celebrities, influencer, micro-influencer, influser, youtuber, solo per citare le categorie più note. L’influencer marketing – quella forma di marketing che si concentra sull’utilizzo di persone influenti in grado di indirizzare le preferenze di acquisto dei potenziali clienti – è diventato un mercato a tutti gli effetti, talmente maturo da poter essere oggetto di misure anche sofisticate.
“Le ricerche più recenti parlano di un mercato globale tra gli 1 e i 2 miliardi di dollari, che potrebbe crescere fino ai 10 miliardi nei prossimi quattro anni”, confermano Fabrizio Perrone e Gennaro Varriale, ceo e cto di Buzzoole, società italiana che dal 2013 a oggi è riuscita a evolversi da startup a realtà internazionale, arrivando a schierare un team di 70 persone distribuito tra Roma, Napoli, Milano, Londra e New York. E che nelle scorse settimane ha effettuato un ulteriore “cambio di passo”, segnalato da una nuova immagine coordinata e dall’ingresso dei due fondatori nella rete di Endeavor Italia, organizzazione che si occupa di promuovere la crescita economica degli imprenditori ad alto potenziale. Se si prova a smontare il meccanismo, è facile rintracciare tre elementi che hanno avuto un ruolo chiave nel percorso di Buzzoole, impegnata al momento a fare da ponte tra quasi 850 clienti e una platea di oltre 265 mila “content creator”.
In primo luogo gli investimenti raccolti, a partire da quello dell’incubatore Digital Magics. Poi una impostazione a livello di privacy che ha anticipato le leggi più recenti, garantendo all’azienda la possibilità di lavorare in continuità anche mentre il settore veniva scosso dal caso “datagate”: sono infatti gli stessi influencer a registrarsi sulla piattaforma per misurare le proprie performance. Ma soprattutto una intelligenza artificiale, Gaiia (Growing Artificial Intelligence for Influencers), che attraverso l’analisi del linguaggio, delle immagini e dei contatti consente di trovare per ogni cliente l’influencer più indicato, quello in grado di arrivare con un messaggio mirato al pubblico di riferimento. Perché il punto non è tanto trovare il testimonial più di successo in assoluto – per farlo basterebbe guardare il numero di follower sui vari social network – quanto quello che è ascoltato dal pubblico giusto e che si esprime con lo stile adatto.
“Non c’è un numero preciso, per quanto riguarda i parametri da monitorare, anche se di sicuro sono tanti. E bisogna tenere conto del fatto che gli strumenti cambiano nel tempo”, affermano Perrone e Varriale, “qualche anno fa le immagini erano meno essenziali di quanto non lo siano ora, ed è probabile che si vada sempre più verso il formato video”. Motivo per cui, ad esempio, l’ultima innovazione introdotta dalla società è stata l’allargamento dei propri servizi alle “Instagram stories”, le sequenze video e fotografiche che ormai rappresentano una forma di comunicazione a sé stante su quello che è il social network degli influencer per eccellenza. Per tenersi al passo, naturalmente, occorrono strutture adeguate, spiegano ancora i due imprenditori: “Un anno fa non avevamo un reparto Ricerca e Sviluppo dedicato, ma negli ultimi 14 mesi abbiamo capito che si tratterà di un elemento sempre più importante”. Il reparto ora esiste e fa capo a circa un terzo della forza lavoro dell’azienda.
Se la parabola di Buzzoole aiuta a capire quello che è lo “stato dell’arte” di un mercato in evoluzione, la sua internazionalizzazione offre lo spunto per provare a ipotizzare ciò che succederà nel futuro prossimo. “Nel Regno Unito e negli Usa cambia la modalità d’approccio”, osservano ancora Perrone e Varriale, “con aziende di grandi dimensioni che sono più pronte all’acquisto diretto della tecnologia e ci consentono quindi di andare nella direzione di essere sempre meno fornitori di media”. Detto altrimenti: mentre nell’Italia delle piccole e medie imprese si continua a pensare in termini di performance, chiedendo una consulenza orientata all’ottenimento di un certo numero di commenti e visualizzazioni, dove ci sono organizzazioni più strutturate – e già dotate di divisioni ad hoc – la domanda va concentrandosi sulla qualità dei dati raccolti e sull’efficacia degli algoritmi impiegati. Dietro a ogni campagna di marketing di successo, se ne deduce, ci sarà sempre più il lavoro di data scientist e sviluppatori.