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Redditometro, dal 1973 a oggi: come il Fisco controlla le spese

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Redditometro, croce e delizia del fisco italiano. Lo strumento di accertamento sintetico dei redditi è tornato di attualità con il decreto ministeriale, a firma del viceministro del Mef Maurizio Leo, pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 20 maggio. Due giorni di polemiche ed è pronto però a tornare in soffitta: con un video postato sui social, la premier Giorgia Meloni ha annunciato l’intenzione di sospendere il decreto, firmato dal viceministro lo scorso 7 maggio. “Ho incontrato il viceministro Leo, ci siamo confrontati sui contenuti del decreto che era stato predisposto dagli uffici del Ministero dell’Economia e delle finanze, e siamo giunti alla conclusione che sia meglio sospendere questo decreto in attesa di ulteriori approfondimenti – ha spiegato – perché il nostro obiettivo è e rimane quello di contrastare la grande evasione e il fenomeno inaccettabile ad esempio di chi si finge nullatenente ma gira con il suv o va in vacanza con lo yacht senza però per questo vessare con norme invasive le persone comuni“.

Come funziona il redditometro

Ma come funziona il redditometro? Si tratta di uno strumento che l’Agenzia delle Entrate può usare per verificare discrepanze tra il reddito reale e quello dichiarato di un contribuente. Come? Analizzando la sua capacità di spesa, quindi il tenore di vita sostenuto: se è così elevato da essere incompatibile con il reddito dichiarato al fisco e se il divario supera il 20% scatta l’avviso di accertamento. Il Fisco lo ha usato dal 1973, ma lo strumento così come lo conosciamo fu introdotto da un altro esecutivo di centrodestra, l’ultimo guidato da Berlusconi, nel 2010, con Giulio Tremonti a guida dall’economia e Giorgia Meloni al dicastero della Gioventù. Ma sempre da destra sono arrivate negli anni le maggiori critiche, ritenendolo un’intrusione nella privacy dei cittadini. Nel 2015 il governo di Matteo Renzi – ministro dell’economia era Pier Carlo Padoan – rimise mano allo strumento, eliminando lo strumento delle medie Istat. Nel 2018 l’esecutivo gialloverde guidato da Giuseppe Conte – alla scrivania di Quintino Sella c’era Giovanni Tria – aveva ‘congelato’ lo strumento con il Dl Dignità, cancellandone il decreto attuativo del 2015 e rimandando a un altro decreto la riformulazione del calcolo del reddito presunto. Riformulazione mai arrivata in questi 7 anni, fino al decreto di Leo.

Il decreto di Leo

Quest’ultima versione doveva essere applicata dall’anno di imposta 2016 – ma i redditi analizzati dovevano essere quelli a partire dal 2018 – facendo riferimento alla “spesa minima presunta rappresentativa del valore d’uso del bene o del servizio considerato“. Le spese, “distinte per gruppi e categorie di consumi del nucleo familiare di appartenenza del contribuente, sono desunte dall’indagine annuale sulle spese delle famiglie” dell’Istat. Sotto la lente di ingrandimento i consumi di generi alimentari, bevande, abbigliamento e calzature, mutui, affitti e fitti figurativi, leasing, acqua e condominio, manutenzione, compensi ad agenti immobiliari, consumi di energia elettrica, gas, riscaldamento, acquisto di elettrodomestici, arredi, biancheria, detersivi, pentole, lavanderia, collaboratori, medicinali, visite mediche, assicurazioni, bolli e pezzi di ricambio di auto, moto, camper, barche, aerei, canoni di leasing o noleggio. E ancora apparecchi di telefonia e relative spese, libri e tasse scolastiche, soggiorni studio all’estero, affitti universitari, giochi e giocattoli, radio, televisione, hi-fi, computer, libri non scolastici, giornali e riviste, dischi, cancelleria, abbonamenti radio, televisione ed internet, lotto e lotterie, piante e fiori, riparazioni radio, televisore, computer, pay tv, l’abbonamento alla palestra, al circolo o a eventi culturali, giochi online, cavalli, animali domestici e spese veterinarie. E poi assicurazioni personali, contributi previdenziali, barbiere, parrucchiere, estetista, centri benessere, prodotti per la cura della persona, argenteria, gioielleria, bigiotteria e orologi, borse, valigie ed altri effetti personali, alberghi, pensioni e viaggi organizzati, onorari pagati a liberi professionisti, il ristorante e il bar, l’assegno all’ex coniuge, gli investimenti patrimoniali, dall’acquisto di una casa a un oggetto di antiquariato.

In caso di avviso di accertamento

L’agenzia delle Entrate avrebbe sommato tutte le spese del contribuente e dei famigliari a carico, gli incrementi patrimoniali, la quota di risparmio: se l’ammontare superava il 20% del reddito dichiarato scatta l’accertamento. Necessario a quel punto dimostrare come si è entrati in possesso di una somma maggiore – per esempio, un’eredità – o procedere al pagamento di nuove tasse. “Il decreto ministeriale pubblicato in questi giorni in Gazzetta mette finalmente dei limiti al potere discrezionale dell’Amministrazione finanziaria di attuare l’accertamento sintetico, ovvero la possibilità del Fisco di contestare al contribuente incongruenze fra acquisti, tenore di vita e reddito dichiarato. Potere previsto dall’ordinamento tributario fin dal 1973″, è stata la precisazione di Leo. Che non è bastata però a calmare il polverone in maggioranza che ha portato allo stop.

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